Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 06/11/2016, a pag. 45, con il titolo "Memoriale di un sopravvissuto agli orrori nazisti", la recensione di Wlodek Goldkorn.
Wlodek Goldkorn
La copertina (Guanda ed.)
Raccontava Marek Edelman, il comandante in seconda dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia, che all’Umschlagplatz, il luogo da cui gli ebrei venivano deportati verso le camere a gas di Treblinka «c’era il silenzio agghiacciante ». Aggiungeva: «E questa era la dignità. Una dignità che faceva paura ai tedeschi».
Narra Moriz Scheyer in Un sopravvissuto, un libro straordinario, appena uscito con Guanda nell’ottima traduzione di Claudia Acher Marinelli, quanto nello spiazzo della caserma Bizanet a Grenoble, le vittime ebree destinate a essere trasferite con destinazione finale campi della morte in Polonia, regnasse sempre il silenzio. E anche lui parla della “dignità”. Edelman e Scheyer non si sono mai incontrati. Il primo, giovane militante socialista guidò una rivolta armata di 220 ragazzi e ragazze contro le armate di Hitler. Il secondo fu giornalista culturale a Vienna tra le due guerre mondiali; amico di Stefan Zweig e Bruno Walter (direttore d’orchestra erede di Mahler), corteggiatore di soprano bellissime e borghese frequentatore dei salotti. Eppure i due si assomigliano nella narrazione dell’eroismo quotidiano; nell’indignazione per l’indifferenza nei confronti delle vittime; nella convinzione che si può perire senza assumersi l’identità di una vittima.
Ma procediamo con ordine. Si diceva che il testo di Scheyer è straordinario; nel senso che è fuori dalla norma. E non solo per la biografia del personaggio. Subito dopo l’Anschluss, l’annessione dell’Austria da parte della Germania di Hitler, l’autore di Un sopravvissuto scappa con la moglie e la donna che aiuta la coppia nelle faccende domestiche Slava (una cristiana che vuol condividere la sorte degli ebrei con cui vive) in Francia. Scheyer, cosmopolita, poliglotta, a Parigi è di casa: ha amici influenti. Eppure viene ridotto allo status di un “paria”, come Hannah Arendt ebbe a definire gli ebrei apolidi. Lui e la moglie sono due esseri privi di ogni diritto; le loro vite non valgono niente; il loro destino è funzione di capricci dei gendarmi, poliziotti, prefetti. Vagano tra Parigi occupata dai nazisti e la cosiddetta “zona libera”, gestita dai collaborazionisti del governo di Vichy. Alla fine, grazie a una famiglia di resistenti comunisti i Rispal, vengono nascosti in un monastero nella Dordogna. Nel convento Scheyer scrive il suo bellissimo memoriale.
La carta d'identità di Moriz Scheyer
Ma prima di raccontarlo, un cenno alla storia di quel testo, che sembra un romanzo. La testimonianza viene trovata dal figliastro, che non regge il peso della memoria, o forse è indignato per la crudezza delle espressioni del patrigno nei confronti dei tedeschi, e che comunque lo distrugge. Sarà il nipote di Scheyer (scomparso nel 1949) a imbattersi in una copia carbone del testo originale e a darla alle stampe, non senza un duro confronto col padre. Che cosa c’è di eccezionale in Un sopravvissuto? La risposta è semplice e sia permessa l’analogia con Primo Levi. I libri di Levi su Auschwitz sono una testimonianza così potente perché scritti da un grande romanziere. Ecco, Un sopravvissuto è vera letteratura.
La prosa è limpida e trascinante. Lo stile è quello dei grandi autori del ’900; da Zweig a Arthur Koestler (basti pensare a Schiuma della Terra). Scheyer non cerca di narrare la grande Storia, racconta piccole storie, e in soggettiva, come se prestasse i suoi occhi al lettore e gli chiedesse di seguirlo nel suo errare tra Parigi e provvisorie dimore nella fuga dai nazisti. Ne viene fuori un io narrante, che è l’autore ma che nel contempo è anche il protagonista di un romanzo verità. Romanzo perché tra il dovere di testimoniare e quello di scrivere bene, prevale sempre il secondo. Scrittore radicale, Scheyer è affascinato dal processo con cui il Male si insinua negli animi delle persone. Racconta quanto sia facile trasformarsi da ignavi in carnefici, e riflette del piacere che alcuni, insospettabili, trovano nell’essere boia; nella malvagità senz’altro scopo che godere delle sofferenze altrui. Ma poi, ci sono anche i buoni, come l’amica Slava, i partigiani Rifal, le suore del convento di Labarde; gente dedita a fare del Bene senza altro scopo che il Bene. E grazie a loro Scheyer sopravvive: fisicamente e spiritualmente e fa a tutti noi il dono di questo libro.
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