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Continua la guerra fra sciiti e sunniti Analisi di Mordechai Kedar (Traduzione dall’ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yehudit Weisz)
Gli Sciiti stanno assistendo alla realizzazione dei loro sogni, mentre i Sunniti entrano in un incubo. La lotta per la successione era iniziata nel 632 d.C., dall’istante in cui il profeta Maometto esalò l’ultimo respiro. Suo cugino Ali ibn Abi Talib, divenne suo genero sposando la figlia del profeta Fatima, e pretese di ereditare la guida dell'Islam perché glielo aveva promesso Maometto. I suoi rivali non lo accettarono, ci vollero 24 anni di aspre lotte perché Ali venisse incoronato quarto Califfo; anche allora comunque non ebbe il tempo di riposare sugli allori, perché il governatore di Damasco, Muawiyah ibn Abi Sufian, si ribellò subito contro di lui. Nel 661, sei anni dopo essere diventato califfo, Ali fu assassinato e Muawiyah divenne il quinto califfo. I figli di Ali continuarono a combattere, ma il nuovo Califfo non mostrò alcuna pietà nei loro confronti: Hussein ibn Ali fu decapitato nel 680 e la sua testa fu esposta bene in vista a Damasco. I musulmani che avevano sostenuto Ali sono noti come Sciiti, mentre quelli che si erano schierati con i suoi nemici, eliminandone gli eredi, sono i Sunniti. Questa lotta che dura ormai da 1384 anni, permea la storia, il pensiero filosofico e le aspirazioni politiche della nazione di Maometto. Viene combattuta su diversi livelli, dagli scritti sacri alla formulazione delle preghiere, dal sistema giuridico fino ai nomi delle persone, ma la sua arena principale è il campo di battaglia, quello su cui milioni di musulmani hanno incontrato la morte e dove sono stati perpetrati massacri da entrambe le parti con una frequenza angosciante. La guerra tra l’Iraq del sunnita Saddam Hussein e l’Iran dello sciita Khomeini, tra il 1980 e il 1988, causò la morte di oltre un milione di persone, lasciò altri milioni di feriti e ancora è in corso con tutta la sua virulenza in diverse arene: Siria, Iraq, Yemen, Libano, Pakistan, Afghanistan e anche in altri paesi. Oggi è l’Arabia Saudita che conduce la lotta sunnita, mentre l’Iran rappresenta gli sciiti. Circa l’85% dei musulmani di tutto il mondo sono sunniti, mentre il restante 15% è sciita. Questo dà normalmente un vantaggio ai sunniti, consentendone la vittoria sulla minoranza sciita. Questa condizione li ha portati a chiamarsi con l’eufemismo coranico di “Almustdaafin”, gli oppressi della terra: continuano a sperare e pregare perché arrivi il giorno in cui si troveranno in cima ad un mucchio di sunniti calpestati sotto i loro piedi; reso possibile soprattutto dopo la rivoluzione iraniana guidata da Khomeini nel 1979. E così che gli sciiti hanno dalla loro parte l‘Iran, un paese ricco, grande e potente, un centro da cui hanno potuto portare la loro rivoluzione nel resto del mondo. L’obiettivo dell’“esportazione della rivoluzione” è stato realizzato con l’invio di propagandisti iraniani, educatori, finanziamenti e libri di preghiere in ogni Paese in cui viva una popolazione sciita, in modo da far rivivere i sentimenti anti-sunniti; una volta che i tempi saranno maturi, dare loro armi e addestramento con l’obiettivo di conquistare il potere in ogni Paese. Il mondo, pur conoscendo le intenzioni dell’Iran, ha ignorato le ambizioni egemoniche degli ayatollah, perché le esportazioni di gas e petrolio dell’Iran sono state viste come preminenti su qualsiasi altra considerazione, compresa la stabilità nazionale e la pace nel mondo.
L’Iran ha potuto così sviluppare missili, carri armati, artiglieria e aerei, così come armi biologiche, chimiche e perfino atomiche. Ci sono stati tentativi di fermare la sua rapida ascesa, ma grazie a Russia e Cina- amici dell’Iran al Consiglio di Sicurezza dell’ONU- gli ayatollah sono stati autorizzati a progredire senza ostacoli verso la loro pianificata conquista del mondo islamico. Nel 2003 gli Stati Uniti avevano rovesciato il nemico più pericoloso e potente degli sciiti, Saddam Hussein. Gli ayatollah l’hanno visto come un volere del cielo, il segno che stavano andando nella giusta direzione. Dio gli aveva concesso loro l’appoggio delle due potenze mondiali, la Russia nel Consiglio di Sicurezza e gli Stati Uniti in Iraq. Gli ayatollah hanno continuato il loro programma nucleare e hanno subìto le sanzioni conseguenti, ma la loro fermezza di fronte alla debolezza americana, ha portato all’accordo firmato nel 2015. I miliardi di dollari dati agli ayatollah a seguito dell’ accordo, investiti nelle guerre in Medio Oriente, hanno dimostrato agli Sciiti che la strada verso il vertice del potere mondiale si allarga davanti a loro, priva di ostacoli. Grazie alla guerra dell’Occidente contro Saddam Hussein, gli sciiti sono riusciti a salvare l’Iraq dagli artigli sunniti, e oggi, grazie ai russi cristiani, riusciranno a districarsi in Siria nei confronti della sua popolazione a maggioranza sunnita. Gli sciiti, come abbiamo visto nel corso degli ultimi mesi a Falluja, Ramadi, Aleppo, e nello Yemen, hanno massacrato senza pietà la popolazione civile sunnita e si stanno ora avvicinando a Mosul, la capitale economica dell’Iraq. E’ triste vedere come la disputa per l’eredità di Maometto da quasi 1400 anni, sia ancora una ferita aperta in questa parte del mondo. La lotta è orribile, perché non ha vincoli geografici o morali e tutto è prevedibile. Ci sarà un bagno di sangue a Mosul, questo è certo. La questione non è se ci sarà o no un massacro, ma se le sue vittime saranno contate in centinaia, migliaia o decine di migliaia. Il loro numero non è ancora noto, ma è indubbio che ci troviamo di fronte a un massacro. Che cosa possiamo aspettarci oggi? Gli iracheni non hanno vissuto nelle stesse condizioni degli europei, ma avevano televisori, radio, libri e giornali, sono stati esposti al comportamento e allo stile di vita come in Europa e Stati Uniti. Inoltre, la maggior parte degli emigrati dal Medio Oriente, in qualsiasi paese decidano di trasferirsi, in genere si integrano. Ci sono eccezioni,ovviamente, l’abbiamo visto lo scorso capodanno in Germania. Tuttavia, è un problema che può trovare soluzione. Tutto rinasce non appena tornano in patria, dove la violenza e l’eliminazione dei rivali sono dettate dalla cultura locale, agiscono in base al codice di comportamento del Medio Oriente, dove solo i forti sopravvivono. I conflitti non vengono risolti, si vincono, e vanno avanti fino a quando l’altra parte non esiste più. Le controversie sono risolte quando una parte è sconfitta, si arrende o è eliminata. Per Israele non è facile sopravvivere in questa regione. Da un lato, Israele è un’isola di cultura occidentale, una democrazia con tutto ciò che comporta, e non può agire nel modo immorale con cui si comportano i suoi nemici. D’altra parte, se Israele cerca di agire secondo le norme morali che l’Europa ha adottato dopo la Seconda Guerra Mondiale, è sicuro che non potrà sopravvivere. Questo difficile dilemma viene sollevato e discusso costantemente nella sfera pubblica israeliana. E la discussione continuerà dato che Israele è in Medio Oriente, a causa del divario tra ciò che ci piacerebbe essere e ciò che siamo costretti a fare. Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi. http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90 |
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