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Il Giornale - Il Fatto Quotidiano Rassegna Stampa
24.10.2016 Stato del Kurdistan: cronaca e commento
di Luigi Guelpa, Michela Iaccarino

Testata:Il Giornale - Il Fatto Quotidiano
Autore: Luigi Guelpa - Michela Iaccarino
Titolo: «Donne e bambini sui tetti: la guerra infame del Califfo - I 4 Kurdistan, lo Stato che (ancora) non c'è»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 24/10/2016, a pag. 10, con il titolo "Donne e bambini sui tetti: la guerra infame del Califfo", il commento di Luigi Guelpa; dal FATTO QUOTIDIANO, a pag. 12, con il titolo "I 4 Kurdistan, lo Stato che (ancora) non c'è", il commento di Michela Iaccarino.

Ecco gli articoli:

IL GIORNALE - Luigi Guelpa: "Donne e bambini sui tetti: la guerra infame del Califfo"

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Luigi Guelpa

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Un giovane gettato giù da un tetto da terroristi dello Stato islamico

La battaglia finale per la conquista di Mosul potrebbe trasformarsi in una carneficina. Le contromisure adottate da Al Baghdadi sono aberranti: il leader dell'Isis ha ordinato di posizionare donne e bambini sui tetti delle case e a ridosso di obiettivi sensibili della città. Secondo indiscrezioni sarebbero già stati selezionati 1.200 «scudi umani», in attesa che l'esercito iracheno faccia irruzione a Mosul. Un gesto terrificante che è stato duramente condannato anche da Papa Francesco nel corso dell'Angelus. Il Pontefice ha parlato di «animi scossi dagli efferati atti di violenza contro musulmani e cristiani. Preghiamo tutti insieme per il popolo iracheno».

Intanto la battaglia prosegue su più fronti, tra il diossido di zolfo che continua a rendere irrespirabile l'aria e le trincee riempite di petrolio che verranno incendiate per creare una cortina invalicabile. Azioni destabilizzanti che non sembrano scoraggiare le forze curde. Ieri i Peshmerga hanno isolato otto villaggi a nord-est di Mosul, arrivando fino a meno di dieci chilometri dalla roccaforte del Califfato. In un dispaccio affermano di aver sigillato un'area di circa 100 chilometri quadrati, di aver ripulito un pezzo importante di autostrada per limitare i movimenti dei jihadisti e di aver anche lanciato una nuova offensiva su Bashiqa, una ventina di chilometri a sudest di Mosul.

L'attacco delle forze curde è supportato dall'artiglieria turca. A Bashiqa è stato eliminato fisicamente l'emiro Abu Farouq, uno dei consiglieri militari di Al Baghdadi. Con il passare dei giorni cresce però il timore per un possibile attacco chimico. Non è un mistero che due anni fa i mujaheddin del Califfo abbiano saccheggiato gli arsenali di Saddam Hussein, ma già nel novembre 2012 misero le mani su ordigni non convenzionali in un bunker conquistato all'esercito di Al Assad. Per queste ragioni i militari Usa hanno distribuito 40mila maschere antigas ai soldati iracheni e altre 9mila ai Peshmerga. L'Isis nel frattempo ha lanciato un attacco a Rutbah, città irachena nella provincia occidentale di Anbar. Era stata annessa allo Stato Islamico nel giugno del 2014 e liberata dall'esercito del generale Al Barwari appena 4 mesi fa. Il sindaco Imad Meshaal ha riferito che l'assalto è stato respinto in serata grazie all'arrivo delle truppe di Bagdad. Questo però non significa che l'allarme sia completamente rientrato. I terroristi sono ancora alle porte della città, mentre un altro squadrone sarebbe stato avvistato a una cinquantina di chilometri a nord, dalle parti di Qaim, quasi sul confine con la Siria.

È evidente che per annientare le forze dell'Isis serva maggior collaborazione tra i vari alleati sul campo. Ne è convinto il numero uno del Pentagono Ashton Carter, arrivato sabato in Iraq. Dopo essersi riunito con il capo di stato maggiore dell'esercito iracheno Al Barwari, ieri si è trasferito a Erbil per seguire da vicino la battaglia e incontrare il leader curdo Masoud Barzani. In fine, ma non meno grave, c'è la questione dei profughi generati dalla guerra. Il rappresentante dell'Unicef per l'Iraq Peter Hawkins ha aggiornato i dati parlando di oltre 4.000 persone fuggite dalle zone intorno a Mosul dall'inizio dell'offensiva militare. Hawkins ha inoltre sottolineato che le condizioni dei bambini in almeno uno dei campi per i rifugiati sono «molto, molto precarie. Serve davvero di tutto, e il problema è che il conflitto ha tagliato quei pochi collegamenti esistenti per i soccorsi».

IL FATTO QUOTIDIANO - Michela Iaccarino: "I 4 Kurdistan, lo Stato che (ancora) non c'è"

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Il Kurdistan non esiste ma si trova in Turchia, in Iraq, in Iran, in Siria. Non è tracciato sulle mappe, ma si trova a sud di Ankara, ad ovest di Bagdad, ad est di Damasco. Non siede ai tavoli delle trattative né tra gli Stati in guerra né tra quelli in pace e il suo popolo è stato usato prima come testa d'ariete contro Assad, poi da scudo per arginare l'avanzata dei macellai neri dell'Is, quando i curdi siriani, a lungo, sono stati l'unico argine armato tra noi, l'Europa e il Califfato fondato nel 2014 nel cuore della Siriaq.

MARDIN COMBATTE — kalashnikov, kefiah e scarpe da corsa - nello Ypg, Yekineyen Parastina Gel, le Unità di protezione del popolo, milizie volontarie e braccio armato del Pyd, il Partito dell'Unione Democratica del Kurdistan. A nervi saldi e cuore caldo, in perenne fuga da un'enclave militare all'altra, il guerrigliero che sa correre come una lepre sotto le nubi nere della notte anatolica si fa chiamare così in onore della sua città natale. Torrette di controllo dei soldati di Erdogan, cavallo di frisia, si scappa da un lato all'altro solo col buio. Durante la corsa dietro di te lasci la Turchia, davanti a te si spalanca il Rojava, nome della terra curda dell'ovest che si estende a nord est della Siria.

Il debutto della loro utopia politica rimane in corso, un mondo in evoluzione mentre in quello arabo continua la rivoluzione. In Siria sono scoppiate due guerre in una sola per la nazione più numerosa del mondo che non ha mai avuto uno Stato ma da sempre ha una lotta, un popolo che non ha mai avuto confini ufficiali eppure li difende con la vita per hèviya azadiyè, speranza di libertà. Mardin combatte per quel triangolo di terra rovesciato che è il Kurdistan che non ha frontiere riconosciute, se non quelle segnate dal sangue dei suoi martiri. E la terra che non c'è sia per chi scappa dalle bombe sia per chi resta a tirarle, dove rimangono tutti i pronti alla morte per la walateme, la nostra terra, i figli di quello che chiamano Apo. E Abdullah Ocalan l'uomo che ha disegnato per la prima volta il perimetro di questa chimera socialista e vive solo da quasi vent'anni, detenuto unico dell'isola prigione di Imrali nel mar di Marmara. Più di cinquantamila morti curdi fa, tutti ammazzati dall'esercito turco, se Apo nel 1978 non avesse fondato il Pkk, se nel 1984 il Pkk non avesse imbracciato armi e montagne, oggi Mardin, le soldatesse con la treccia che dormono in divisa e al mattino, prima di lavarsi la faccia nel fiume, se ne infilano un'altra identica, insieme allo Ypg, non esisterebbero. Per i civili se non è inferno siriano, è purgatorio iracheno.

NEL CAMPO PROFUGHI di Domiz, a Dohuk, l'asta affonda in metri di fango, sotto pioggia battente, mentre sulla bandiera sventola il rosso, verde e bianco, il tricolore del sangue, della terra e dell'uguaglianza, con al centro il sole a ventuno raggi. Dall'inizio della guerra sono migliaia i curdi, insieme alle minoranze di yazidi ed assiri in arrivo da ogni provincia siriana, che si sono rifugiati nella regione tenuta in pugno da Mas'ud Barzani dal 2005, nel campo gestito dall'Unhcr. Le tende sono case, sono cliniche, sono negozi e sono scuole improvvisate di una tendopoli profuga che è ormai una città dentro l'altra, a un paio di chilometri dalla Capitale del Kurdistan iracheno, Erbil, solo 80 chilometri dalla roccaforte jihadista adesso sotto assedio. Il popolo che ha insegnato all'Europa che vuol dire resistere a Kobane, ora ricorda che vuol dire avanzare a Mosul. Dei 30mila soldati delle unità musulmane che marciano verso il fortino nelle mani del Califfato dal 2014 in queste ore, sono 4mila i curdi peshmerga tra le milizie sciite, le tribù combattenti sunnite, soldati iraniani ed esercito iracheno.

I KURDISTAN ormai sono più di quattro, alcuni fanno sponda in Europa dopo l'esodo mediterraneo, quando alla diaspora fuggita dalle guerre di ieri verso Germania e Scandinavia, si è aggiunta quella di oggi: del milione di siriani scappati attraverso la Turchia nel 2015, sono centinaia di migliaia i non censiti che parlano kurmangi e sorani, dialetti della lingua kurdi. Inshallah Allemagne. Merkel Miracle. Open the borders, maifreen.

A IDOMENI, ognuno era "my friend" quando, tenda dopo tenda, si accendevano i falò, si bruciava gomma, legno, scarpe, calava la notte e si alzava la puzza acida di plastica bruciata e piscio. Dall'altro lato, nella Las Vegas macedone, nel deserto di Gevgelija, brillava la luce rossa dei casinò che illuminava il corridoio chiuso del passaggio vietato. Sognare la Germania in Grecia, come facevano i curd i bloccati dalla polizia, era un paradosso per gli ellenici affondati dall'Europa. Mohamed parlava francese, inglese, armeno, turco, arabo, kurmangi e persiano. Per 23 anni era stato un contabile ad Aleppo: "Ora questa è la mia nuova vita. Una ciotola di riso per terra". Hussein aveva una maglia dei Pink Floyd, un'estensione all'orecchio e le forbici in mano. Era il barbiere della Rojava migrante sui binari di Idomeni. Stava tagliando i capelli a Rudyn: "Io ho un vero nome curdo, un nome socialista. Noi non torniamo indietro, per gli shabab curdi, siriani o iracheni, la morte è sempre turca". Da campeggio, da circo, militari, da beduini, di plastica, di tappeti: quelle tende ad Idomeni a più di un curdo ricordavano quelle fatte di foglie e rami, nascoste tra i massi, della guerriglia sulle montagne. Chi era arrivato per primo al binario chiuso d'Europa aveva occupato un posto nel treno immobile e tirava su le coperte nella cuccetta viaggiatori ogni sera. Chi ci riusciva, dormiva. E chi dormiva forse sognava che quel vagone arrugginito, fermo da mesi, cominciasse improvvisamente a muoversi per tornare indietro verso la terra che non esiste o ripartire verso nord.

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