Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 21/10/2016, a pag. 1-17, con il titolo "Mosul, Alex, l'ex alpino con i curdi: 'Così aiuto i peshmerga in guerra' ", l'intervista di Fabio Tonacci a Alex Pineschi.
L'ex alpino Alex Pineschi, aiutando i peshmerga curdi nella guerra contro lo Stato islamico, dà un contributo alla causa della pace. Ha saputo dimostrare con i fatti, e non con le parole come molti "esperti" pacifisti il proprio impegno, i nostri complimenti vanno a lui.
Ecco l'intervista:
Fabio Tonacci
Alex Pineschi
C’è un peshmerga italiano, tra gli uomini che stanno liberando Mosul. Alex Pineschi, 33 anni, nato e cresciuto a La Spezia. La sua è la storia di un contractor andato in Iraq per insegnare ai curdi a fare la guerra al Califfato.
ALLA fine è divenuto anch’egli combattente. «Non sono un mercenario, sia chiaro», ti dice, appena intuisce dove va a parare il discorso. Risponde al telefono da Erbil, è attentissimo a non svelare troppi dettagli, nonostante i video che posta da mesi su facebook siano molto espliciti. Sta masticando del cibo, cosa che farà per tutta la durata della conversazione. «Non mangio da due giorni, abbiamo appena liberato alcuni villaggi vicino a Mosul con la Task Force Black». La famosa unità antiterrorismo dei peshmerga, composta da un centinaio di militari curdi. E da un italiano.
Se lei non è un mercenario, cos’è? «Sono pagato dal governatorato di Kirkuk solo per organizzare l’addestramento del personale all’interno delle basi. Quando esco da lì, vado volontariamente in missione con le unità impegnate sul campo».
E perché lo fa? «In due anni ho conosciuto circa duecento-trecento uomini, sono diventati miei amici. La loro causa è anche la mia: difendono la propria regione autonoma, proteggono donne e bambini dagli invasori dello Stato islamico. Non sono venuto qui perché non sapevo cosa fare in Italia: avevo una società mia, stavo bene, nessun problema con la legge”.
Un gruppo di peshmerga curdi
Quando ha deciso di andare in Iraq? «Nel 2014. Avevo capito che i peshmerga non erano formatissimi, così ho comprato un biglietto aereo di sola andata per Sulaymaniyah e mi sono presentato ai comandi militari curdi. All’inizio erano diffidenti, poi mi hanno fatto addestrare un piccolo team. Sono andato bene, me ne hanno dati altri, fino ad arrivare alle loro unità specializzate. Gli ho fornito un sistema di lavoro, gli ho insegnato la tattica e come metterla in atto. Ho passato mesi ad ascoltare le storie di chi fuggiva perché si era ritrovato il Califfato in casa, o di chi la casa non ce l’aveva più e aveva perso fratelli, sorelle, figli».
Che esperienza militare ha? «Ho servito come volontario nell’esercito italiano, nel corpo gli alpini poi un breve periodo con i paracadutisti. Negli Stati Uniti ho studiato nei migliori centri di formazione del settore. Come operatore di sicurezza marittima sono stato in Somalia, in Asia, in Medio Oriente ».
Di cosa hanno bisogno i curdi per fermare l’Isis? «Non certo di volontari stranieri senza esperienza che tirano un grilletto, ma di tecnici esperti che li addestrino e siano in grado di capirne mentalità e cultura».
Quanto sono preparati i miliziani del Califfato? «La gente pensa che siano quattro ‘ciabattari’ col kalashnikov, invece sono professionisti, scavano tunnel, hanno i droni e anche i droni bomba. E hanno un vantaggio enorme sui curdi».
Quale? «Il jihadista non va a combattere pensando di tornare a casa, va per morire sul campo di battaglia».
Cosa fa la Task Force Black? «Contrasto al terrorismo e repressione dei fenomeni di mafia, criminalità organizzata, traffico d’armi, in poche parole l’obiettivo è la salvaguardia della provincia di Kirkuk. Sono l’unico straniero a farne parte, non ci sono donne. Il nome curdo è “Esa Rashaka” che vuol dire vestiti di nero: divise nere, mezzi neri, nero anche il logo, che è una pantera. Il 90 per cento delle missioni ha come obiettivo le truppe dello Stato islamico. Finora l’unità da me addestrata ha concluso oltre 90 operazioni, liberando la provincia di Kirkuk. Mancano solo un paio di villaggi. L’ultima missione, in mattinata, vicino a Mosul».
Come è andata? «Abbiamo avuto 5 martiri, purtroppo. Ma assieme alle altre squadre di supporto, abbiamo conquistato sei villaggi. L’Isis usa i civili come scudi umani, in mezzo a migliaia di famiglie che stanno fuggendo. I campi profughi sono dappertutto ».
Ha ucciso qualcuno? «Il mio lavoro è quello di addestrare... ».
Rischia di essere incriminato quando tornerà in Italia? «Il decreto antiterrorismo dice che non si può andare a combattere a fianco di organizzazioni terroristiche, ed i peshmerga non sono terroristi. Sono tranquillo e faccio tutto in trasparenza».
Quando tornerà in Italia? «Non ho fissato una data, non ho un biglietto di ritorno. Ho preso un impegno, e lo voglio portare a termine».
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