Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/10/2016, a pag. 29, con il titolo "Roma 16.10.43", il ricordo della razzia del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943,
Umberto Gentiloni
Sono nato in via del Portico d’Ottavia al numero 9. Quella mattina del 16 ottobre 1943 i tedeschi ci entrarono in casa. Ci hanno svegliati e siamo scesi in strada, seguendo istruzioni precise. Dovevamo attraversare la via, passare sul marciapiede opposto e camminare verso il Tevere. Poco più avanti, al primo slargo con un incrocio, ci aspettava un camion dove saremmo dovuti salire per iniziare un lungo viaggio». Parla con precisione e commozione Mario Mieli (meglio conosciuto come Mario Papà) mentre riavvolge il nastro di una storia che ha inizio alle prime luci dell’alba di un sabato mattina di settantatré anni fa. Sono tracce di memorie lontane, parole che a fatica mettono insieme sensazioni, ricordi, racconti collettivi passati attraverso la ferita di un giorno inimmaginabile: la grande retata degli ebrei romani, la tragedia che giunge in pochi minuti, irrompe nelle famiglie, nelle storie più diverse, senza preavviso. E la vita rimane appesa a un filo, a un confine che non esiste tra il prima e il dopo. L’irruzione in casa di uomini in divisa, porte sfondate, armi in pugno, il calcio del mitra, terrore diffuso in lunghi attimi di attesa rotti da poche parole per molti incomprensibili. A seguire la consegna delle istruzioni dattiloscritte su un piccolo ritaglio di carta bianca: “1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti. 2. Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno otto giorni; b) tessere annonarie; c) carta d’identità; d) bicchieri. 3. Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personale, coperte; b) denaro e gioielli. 4. Chiudere a chiave l’appartamento e prendere con sé le chiavi. 5. Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo. 6. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto la famiglia deve essere pronta per la partenza”. Un linguaggio sinistro che è già una condanna pianificata: tenere insieme i nuclei delle famiglie per fingere di dare conforto evitando reazioni o resistenze, indicare una meta inesistente (il trasferimento), giocare sul fattore tempo, far presto senza lasciare tracce o prove degli spostamenti di truppe o persone mobilitate in quella mattina. Solo venti minuti prima che la tragedia abbia inizio: appena il tempo di chiudere con la vita precedente per piombare increduli e impreparati nel cono d’ombra della deportazione. E da lì il destino delle situazioni diverse, degli imprevisti del caso o delle piccole grandi azioni di chi si trova dentro il tracciato di un itinerario che inizia con gli sportelli di un camion parcheggiato dietro casa per concludersi sulla rampa di Auschwitz-Birkenau. Ma torniamo alle parole di Mario Papà e a quella marcia di avvicinamento verso il camion.
«Ci aspwttavano a fianco delle ruote per farci salire. E qui cominciano le mie fortune, i gesti di altri che, senza che me ne accorgessi, mi mettono in salvo. Mia zia si era mossa da piazza Costaguti, a pochi metri da noi, e camminava lentamente sul marciapiede opposto. Sapeva della retata, suo marito non c’era, e pensava che riguardasse solo gli uomini che venivano portati via per lavorare». Mario ha due anni e mezzo, sta al sicuro nelle braccia del papà che chiude la fila, la zia torna sull’altro lato della strada. «A quel punto, mentre tutti si mettono in coda per salire sul camion, passa una donna che cammina in senso inverso al nostro, una signora cattolica (così la chiama con affetto, ndr) con due buste della spesa in mano. Mentre stavo salendo con gli altri, lei ad alta voce si rivolge a qualcuno che potesse ascoltarla: “ Che se lo portano a fa’ quel regazzino che vanno a lavorà? Perché non se lo tiene qualcuno che rimane?” ». Parole che la zia di Mario ascolta e non lascia passare invano. Il coraggio di due donne che s’incrociano per caso nel destino di quella mattina. «” Se lei va a chiedere e glielo danno me lo porto via io il bambino. Io non posso farlo, so’ ebrea, a me non me lo danno” ». A questo punto la signora con le buste della spesa passa all’azione: «” Certo che ce vado e voglio vedé che non me lo danno” ». Si rivolge a un soldato tedesco, dice che quello è suo figlio, che lo aveva lasciato per andare a fare la spesa, e gli chiede di poterselo riprendere. Non si capiscono fino a quando un imprevisto interprete, Arminio Wachsberger, che già era sul camion, non si preoccupa di tradurre le frasi che aveva ascoltato. «Il soldato ci crede, mi fa passare e mi consegna nelle braccia della signora. A quel punto mia zia si avvicina pensando di potermi portare via. Ma la signora non si fida e le dice: “ Che so’ matta che te lo do qua! Vieni a prendertelo ai giardinetti”. E così siamo arrivati oltre via Arenula, in attesa che mia zia potesse venire a prendermi ». Fuori pericolo, senza sapere cosa avveniva a chi era rimasto a pochi metri di distanza. «Con mia zia siamo saliti sul tram e siamo rimasti per alcune ore sotto il colonnato di San Pietro. Poi mi hanno nascosto in un convento, sono stato adottato e sono cresciuto con i miei zii». A pochi metri di distanza un ragazzo di dodici anni, Emanuele Di Porto, è appena salito su un altro camion seguendo la sorte della sua famiglia. Oggi che di anni ne ha ottantacinque gli trema la voce mentre va indietro con i ricordi: «Arrivarono a casa prima delle cinque. Mia madre corse fuori per avvisare papà che lavorava alla stazione Termini. Voleva dirgli di non tornare, pensava che prendessero solo gli uomini, chi poteva lavorare». Dalle finestre di casa il ragazzo vede che la fermano. Che le dicono di andare verso un camion. Corre in strada, la raggiunge. Si ritrovano stretti l’uno all’altra sul camion che si sta mettendo in moto. Sarà per l’ultima volta. La mamma sente il pericolo. Un’altra donna coraggiosa butta in strada Emanuele con una spinta. «Sono corso via e mi sono nascosto. Sono arrivato al deposito dei tram a Monte Savello e sono salito mettendomi vicino a chi strappava i biglietti. Gli ho detto che ero ebreo e che scappavo dai tedeschi. Per due giorni ho vissuto dentro la Circolare. Quando saliva un conducente o un bigliettaio a ogni cambio turno mi diceva “ Non ti muovere”. Mi davano anche da mangiare, una mezza ciriola, ché allora non c’erano i panini». Una rete di partecipazione e solidarietà inattesa nella vicinanza spontanea di chi vuole nascondere una giovane vita. Tutto si concentra nelle strettoie e nelle possibilità di poche ore. Chi riesce a tirarsi fuori e chi finisce in una strada senza ritorno. Tanti vengono venduti per poche lire, altri trovano rifugio presso conventi, abitazioni o luoghi di ritrovo. Alcuni romani collaborano con le direttive naziste, altri rischiano la vita per mettere in salvo amici o concittadini. Chi guarda, chi scappa, chi viene preso e chi ferma immagini e situazioni nella propria mente accompagnandosi a un taccui- no su cui perfezionare scarabocchi, disegni, schizzi, scene di vita. Così fa Aldo Gay, anche quel sabato mattina. Aveva poco meno di trent’anni, allora, e una grande passione per il disegno. Girava sempre con un blocco di carta e una matita, talvolta con piccoli quadernetti che teneva in tasca. Una sorta di ripresa continua che si sofferma sui particolari, ingrandisce dettagli, riproduce in diretta o rielabora dopo qualche tempo ciò che l’occhio ha visto e memorizzato. Per molti, i sommersi, la sorte prenderà una direzione spietata. Il territorio urbano viene diviso in ventisei zone. Alle dipendenze di Herbert Kappler e Theodor Dannecker (già responsabile delle deportazioni anti ebraiche in Francia e inviato a Roma direttamente dall’ufficio di Adolf Eichmann) si muovono 365 uomini appartenenti alle truppe di occupazione, coadiuvati dalla Questura di Roma e dalla polizia fascista. Secondo il rapporto Kappler quella mattina a Roma vengono arrestate 1.259 persone e inviate al Collegio militare di via della Lungara, nei pressi del carcere di Regina Coeli: in 252 vengono rilasciati. All’alba del 17 ottobre 1943, all’interno del Collegio militare, nasce un bambino, figlio di Marcella Perugia, rimasto senza nome. Il giorno seguente un convoglio si mette in moto dalla stazione Tiburtina. Il numero complessivo dei deportati dovrebbe essere di una decina superiore a quello indicato da Kappler. Ha inizio il viaggio senza ritorno, arrivo ad Auschwitz il 22 ottobre 1943. La selezione porta all’inserimento nel campo di 149 uomini e 47 donne: gli uomini vengono immatricolati con i numeri da 158491 a 158639, le donne con quelli da 66172 a 66218. Tutti gli altri, oltre l’80 per cento, vengono uccisi negli impianti di messa a morte di Birkenau. Degli abili al lavoro si salveranno in sedici: quindici uomini e una donna, Settimia Spizzichino. Degli oltre duecento bambini nessuno tornerà indietro. Tante ricerche senza un segno, un’immagine, un oggetto per continuare a sperare. Cosa rimane oggi di quel giorno e della sua memoria? Che segno ha lasciato nel tessuto di una città ferita? L’apertura dell’Archivio della Croce Rossa Internazionale (a Bad Arolsen, in Germania) ha permesso di portare alla luce tracce di vite spezzate dalla violenza. Studi e ricerche su fonti tedesche, italiane, statunitensi o inglesi hanno consentito di squarciare il velo che copriva una pagina drammatica della nostra storia indagando sui silenzi, le complicità o le collusioni. E dai cassetti, dalle scatole o dagli album di famiglia continuano a venir fuori nuove tracce, tasselli unici e preziosi di un mosaico collettivo. Molti li possiamo vedere esposti in una mostra che oggi si inaugura, raccolti in questi anni dalla Fondazione Museo della Shoah: sono carte di archivio, memorie o testimonianze come quelle riportate in queste pagine. E poi fotografie, lettere, pagine di diari. Per comprendere ciò che è accaduto, continuare a raccontare storie e far sì che quella giornata lontana non venga rimossa né dimenticata.
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