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La Stampa Rassegna Stampa
15.10.2016 Bob Dylan visto dal vivo nel deserto californiano
Ritratto di Benedetta Grasso

Testata: La Stampa
Data: 15 ottobre 2016
Pagina: 11
Autore: Benedetta Grasso
Titolo: «Nel deserto al concerto del secolo, sul palco suona un premio Nobel»

 Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/10/2016, a pag.11, con il titolo "Nel deserto al concerto del secolo, sul palco suona un premio Nobel", il commento di Benedetta Grasso, al seguito di Bob Dylan al tradizionale concerto nel deserto californiano.

Il premio Nobel a Bob Dylan non è esattamente farina adatta al nostro sacco, ma potrebbe diventarlo. E'la prima volta che viene attribuito a un poeta/cantante - molti commenti intelligenti e privi di invidia usciti ieri l'hanno avvertito - e, guarda caso il primo a riceverlo è un cantautore ebreo con Israele nel cuore. Questo aspetto non l'ha riportato nessuno, tranne forse noi.Per questo riprendiamo l'affettuoso pezzo di Benedetta Grasso.

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Benedetta Grasso

Al servizio di autonoleggio fuori Los Angeles, Ravi sorride raggiante: «Chi va al concerto?». Risposta dell’uomo barbuto con un cappello leopardato, che forse si ispira alla canzone Leopard Skin Pill Box Hat di Bob Dylan: «Io!». Ravi gli consegna la macchina: «Ho visto che Dylan ha vinto il Nobel! Bisogna celebrare! Vuole una bottiglia di champagne? Sono solo 40 dollari». A poche ore dall’annuncio arrivato dalla Svezia, nel deserto della California vicino a Indio, tra le palme, i paesaggi rossi e arancioni che sollevano polvere solo a guardarli, è tutto un fermento. È il secondo weekend di Desert Trip, il concerto del secolo, oggi Bob Dylan e i Rolling Stones, poi Paul McCartney e Neil Young, infine Roger Waters e The Who. «Allora ai Rolling Stones dovevano dare il Nobel per la chimica» è la battuta che gira di più. La notizia ha completamente dato un altro significato a questo weekend. Negli Stati Uniti in migliaia hanno passato la giornata a condividere analisi, canzoni, articoli, dal New Yorker al Los Angeles Times. È un momento di orgoglio nazionale. In fondo il Nobel è l’Olimpiade degli intellettuali e la medaglia è andata all’America che ha fatto riflettere, innamorare, osare generazioni. Mai tramontata. Non vintage. Fuori dai canoni Dylan è sempre stato un letterato tra le righe, multiforme, fuori da ogni canone. Divorava libri senza usarli in modo pretenzioso, ma come la tradizione orale dell’epica folk e blues. Si sa che non è il più fedele e «cantabile» tra i presenti al Desert Trip. E tutti sanno che il senso dei suoi concerti sta nel non fare le canzoni come uno se le aspetta, come le fanno quelli che cantano Blowin’ in the Wind intorno ai falò. Dylan si fa vedere quasi sempre di spalle ormai, come un Salinger che non può scomparire del tutto ma in fondo lo vorrebbe, un Philip Roth corroso dalle sue nevrosi e passioni, uno Steinbeck che sogna una terra nata dal duro lavoro, un sogno americano che si sposta e modifica sempre. Si dubita perfino che faccia un discorso al Nobel: «Dovrebbe far parlare le sue canzoni», commentano in tanti. «Il premio arriva a 50 anni esatti da Blonde on Blonde», dice Carter, californiano appena arrivato. «È un chiaro segnale dell’Europa contro Trump», aggiunge Nora, facendo eco a un tweet di Stephen King che dice che in una stagione pesante per l’America, di violenze, elezioni sofferte, finalmente arriva una buona notizia. Finalmente il poeta di Duluth e del Greenwich Village, la voce del folk che ha fatto di ogni canzone un gioco talmudico di richiami, livelli, interpretazioni è riconosciuta dalla cultura ufficiale. Finalmente si sancisce che Dylan è davvero un poeta, per l’uso di immagini intrecciate tra loro, parole ed emozioni complesse, rimandi psicologici, letterari, un folk di cuore con un intelletto travolgente. L’esperta di media e cinema laureata a Harvard Marcelline Block dice che «Dylan si è spinto oltre i limiti dei generi letterari. È lui la voce iconica dell’America. Ed è meraviglioso e molto significativo che da ieri sia un premio Nobel». L’evento Desert Trip è una fiera dell’entusiasmo per il rock classico, una Woodstock 2.0 affollata di persone di tutte le età. Non è kitsch, non è un set di Hollywood, perché la California stessa, fuori da Los Angeles, si immerge nella narrativa del Paese reale. Gli hippie ormai invecchiati, i giovani affamati che arrivano da tutto il mondo affollano i ristoranti in stile Slow Food, le dozzine di chioschi gourmet, vegani, kosher. Intorno, fervono attività ricreative di gruppo da campus a cielo aperto, un po’ come a Coachella e al Burning Man: giochi, gadget tecnologici, tornei di ping pong, yoga. Tra gli oggetti che non possono entrare nell’area del festival ci sono: frisbee, hoverboard, pistole ad acqua. I cartelli che lo segnalano fanno uno strano effetto, sembrano rivolgersi a teenager californiani capitati lì per caso. Si sprecano le ironie sul «glamping», il camping da ricchi, o di quelli che sanno godersi la vita. È una celebrazione dell’adrenalina, dell’emozione e della crescita personale. Con la tranquillità di un classico, che come un libro o un film fa crescere, a prescindere dalla generazione a cui si appartiene. Segna. Parafrasando Virginia Woolf, sono quei momenti per cui ti guardi indietro e ti scopri diverso dalla persona che eri. E spesso è Dylan che fa da spartiacque. La luna sopra le palme, le folle che girano tra motel, tutto si prepara al grande concerto, tra le nuvole rosa. Woody Guthrie, il mentore di Dylan, cantava: «La California è un giardino dell’Eden, un paradiso da vivere e da vedere, ma che tu ci creda o no, non la troverai bella senza do-re-mi».

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