Riprendiamo da PANORAMA di oggi, 13/10/2016, a pag. 102, con il titolo "Goloso di Verdi e tortellini", l'intervista di Stefania Berbenni a Daniel Oren .
Daniel Oren
A Daniel Oren succede di essere un apolide, suo malgrado. Destino ineluttabile riservato ai grandi direttori d'orchestra, cittadini del mondo, viaggiatori di podio in podio, con il loro personalissimo Google maps: la musica. Oren, enfant prodige, pupillo di Leonard Bernstein con il quale debuttò da solista a soli 13 anni, ha però un legame particolare con l'Italia: è stato al vertice di molti teatri (l'Opera di Roma, il Verdi di Trieste, per citarne alcuni); da alcuni decenni è protagonista del festival areniano di Verona e ha appena finito di dirigere il Don Carlo al Regio di Parma. Con Giuseppe Verdi ha un rapporto specialissimo, costruito nel tempo e cementato da un amore dichiarato: «Verdi è in assoluto il genio italiano. Lo accosto a un altro nome: Giacomo Puccini». Altro che definirlo, come fanno i detrattori, il compositore delle marcette e delle facili romanze. Il Don Carlo ne è un esempio, opera imponente, gigantesca per certi aspetti.
Una partitura complessa. Non è così? È fra le opere verdiane più difficili. Se parliamo di voci, per esempio, ci vuole un colore molto particolare, occorre perfezione per interpretare il fraseggio all'italiana. Sono tante le sfaccettature dei vari personaggi.
Però lei di Verdi è compagno di strada... Ogni volta che si prende in mano la partitura di un capolavoro, ci si accorge che bisogna ristudiarla da capo, tanto è complessa.
II Don Carlo, che ha aperto il Festival Verdi, fa storia a sé. Perché? Verdi era cosciente che fosse diversa da tutte le sue opere precedenti, ha continuato a metterci mano, aggiungendo e riscrivendola per 20 anni.
Lei ha diretto ovunque, però l'Italia ha un posto speciale nel suo curriculum. È stato il destino: da quando ho vinto il Premio Herbert von Karajan hanno cominciato a chiamarmi di qua e di là. A Trieste ho fatto il mio primo concerto, nel '76, l'anno del terremoto. A 18 anni ho lasciato la mia terra, Israele. La mia professione mi ha trasformato in un giramondo.
È dunque un testimone prezioso per consigliare luoghi da visitare... A Verona è piacevole passeggiare, tutta la città ha una sua bellezza. In piazza Bra c'è il ristorante Vittorio Emanuele, un locale storico, di eccellenza, che frequento spesso. A Trieste adoro piazza Unità per la sua architettura magica e quell'aria mitteleuropea. A Roma mi piace camminare sugli argini del Tevere.
Prosegua per favore, maestro, lei è meglio di TripAdvisor. A Napoli è d'obbligo andare da Mannella, le più belle cravatte d'Italia. Conosco questo negozio fin da quando ero ragazzo.
Fuori dai nostri confini, che cosa sceglie? Londra è un'altra mia città d'elezione, amo molto l'atmosfera che c'è al Covent garden, il quartiere popolato di artisti di strada. E poi c'è Parigi, per me un luogo speciale.
Perché? Ricordo perfettamente i racconti che ne faceva mia mamma quando ero bambino... E' una metropoli intrisa di storia, testimone di un momento d'oro: l'inizio del Novecento. Il quartiere latino è un gioiello.
Per caso, oltre che globetrotter, è anche un lettore accanito? Non ci crederà, ma non sempre cerco titoli raffinati in libreria, piuttosto volumi di cucina, perché sono interessato a scoprire le radici culinarie dei vari Paesi in cui vado. Sono molto goloso e l'Italia mi accontenta sempre. Confesso che anche quando sono all'estero preferisco andare nei ristoranti italiani, non solo per il cibo, ma per l'atmosfera che c'è.
Qualche indirizzo della sua agenda. L'Harry's bar a Londra e la Trattoria del bucato a Parma, dove fanno dei cappelletti in brodo meravigliosi e dei tagliolini al tartufo...
Insieme alla musica, ama altre forme d'arte? Apprezzo molto il Rinascimento. Tutto Michelangelo. E Agnolo Bronzino. Anche certi moderni mi piacciono, come Giuseppe Penone, rappresentante dell'arte povera. Io amo le cose semplici in fondo, genuine, pulite. In musica però il discorso è diverso, naturalmente.
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