Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/10/2016, a pag. 13, con il titolo "Addio al maestro Wajda: raccontò al mondo Solidarnosc e Katyn", l'analisi di Domenico Quirico.
Andrzej Wajda, tra i più significativi registi dell'Europa orientale della storia del cinema, è morto ieri. Lo ricordiamo soprattutto come autore di "Katyn", il film che ha fatto conoscere a milioni di spettatori l'orrore della strage dell'establishment polacco, voluto nel 1939 da Stalin ma attribuito dai sovietici a Hitler.
Ecco l'articolo:
Domenico Quirico
Andrzej Wajda
Prima che un grande maestro di cinema, prima che un intellettuale polacco Andrzej Wajda, morto ieri all’età di novantanni, era un uomo coraggioso. Perché molto coraggio era necessario, vivendo nella tenaglia della dialettica staliniana che aveva inghiottito anche il suo paese, per girare negli Anni 50 film come «Cenere e diamanti», «I dannati di Varsavia», «Quiete dopo la battaglia». Sì, perché il Padre dei popoli che eccelse nel massacro era appena scomparso e il male con la M maiuscola mostrava sempre il suo grugno. Quello era il mondo totalitario in cui il singolo cessa di poter pensare, scrivere, filmare diversamente da come bisogna e finisce di accettare questo «bisogna»: perché al di fuori di esso (il socialismo, il proletariato, la rivoluzione... ) niente di valido sembra poter nascere. Ecco le tremende tenaglie della dialettica che hanno soffocato generazioni di russi e di sudditi dell’impero: l’intellettuale si arrendeva non solo perché aveva paura per sé, ma anche perché aveva paura per qualcosa di più prezioso, che la sua opera avesse senso e valore.
Tutto lo sforzo doveva essere rivolto a restare allineati, si dubitava della validità artistica di resistere. Wajda lo ha fatto, ha resistito. Ha capito che descrivere la sofferenza purifica solo in una certa misura. Quando diventa quotidianità, si prolunga, ti trasforma in pezzi di legno. Bisogna lottare. Per questo era inevitabile diventasse il regista e il cantore di Solidarnosc e delle sue battaglie. Wajda è stato un demolitore del consenso organizzato che aveva preso il posto, tra corruzione e insipidi torpori, del feroce Leviatano stalinista. Fare cinema poesia romanzo storia in quel mondo era, non dimentichiamolo, una scuola di vertigine.
La locantina di "Katyn"
Nel 2007, in un piccolo cinema di rue des Arts a Parigi, ho visto uno dei suoi ultimi film, «Katyn», epitaffio dolente della crudele purificazione di classe che la polizia staliniana compì nel 1939: uomo dopo uomo, un colpo alla nuca, la eliminazione di ventiduemila ufficiali che costituivano la classe dirigente della Polonia appena spartita dal patto tra i boia, la Germania nazista e la Russia comunista. Il padre del regista fu una di quelle vittime gettate come immondizia in una grande fossa comune nella foresta, condannate da quella entità che nel Novecento ha preso il posto di Dio: la Storia. Il cinema, quella sera, era malinconicamente vuoto. Ma quella assenza era la prova del trionfo di Wajda: anche grazie a lui il Leviatano era stato debellato, non era più notizia, polemica, non infiammava le anime e le menti.
Negli Anni Settanta si andava a vedere i capolavori di Wajda «L’uomo di marmo» cruda critica dello stalinismo e «L’uomo di ferro», epopea di Solidarnosc in cui recitava se stesso il baffuto tribuno di Danzica, Lech Walesa, per gettare uno sguardo oltre il Muro, non senza sentire un brivido: era una realtà sorda, fatta di attesa, di ansie sotterranee, una realtà di talpe indemoniate che scavavano micidiali gallerie sotto il potere di Visinskij avvizziti ma ancora brutali. Sentivano, quei polacchi, profeticamente lo scricchiolio della macchina del mondo comunista. Non lo sapevamo, ma appena dieci anni dopo, anche grazie a tutto questo, i Muri sarebbero crollati e la Grande Bugia si sarebbe decomposta nella polvere.
In Wajda si agitava inquieta e mai rassegnata l’anima polacca: stretta alla propria Croce, la dimestichezza con la disgrazia che è privilegio di coloro che nati spacciati dalla geografia convivono da secoli con la propria fine. Tutto uno spazio etnico ne fu segnato, una grande pianura aperta alla voglia brutale di russi, tedeschi, austriaci. A cui contrapponevano una competenza di suppliziati e di dolenti: i cavalieri polacchi che armati di lance sui loro fragili cavalli si lanciavano contro legioni di carri armati… Con una amarezza in cui c’era una certa dolcezza e persino una certa voluttà.
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