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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
07.10.2016 Sergio Romano rimpiange il comunismo in Russia, gli rinfreschiamo la memoria
Con un'analisi di Luciano Pellicani

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Sergio Romano - Luciano Pellicani
Titolo: «Rimpianto del comunismo nella Russia di Putin - Dimenticare Marx, si può»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/10/2016, a pag. 53, con il titolo "Rimpianto del comunismo nella Russia di Putin", la risposta di Sergio Romano a Domenico Spedale; dal FOGLIO di ieri, con il titolo "Dimenticare Marx, si può", l'analisi di Luciano Pellicani.

Sergio Romano, ex ambasciatore a Mosca durante l'era De Mita, rimpiange la Russia comunista, mettendola a paragone con quella di Putin. Se la seconda non è certamente democratica, la prima era una dittatura feroce, responsabile di drammi umani senza pari. La migliore risposta a Romano è l'articolo di Luciano Pellicani, che riprendiamo dal Foglio di ieri. Così rinfreschiamo la memoria allo "smemorato" Romano.

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Sergio Romano : "Rimpianto del comunismo nella Russia di Putin"

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Sergio Romano

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La prima pagina dell' Unità annuncia con rimpianto la morte di Stalin

A leggere la scrittrice Svetlana Aleksievic ( Tempo di seconda mano ), si ha l’impressione che i giovani russi abbiano nostalgia di un passato comunista che però non hanno nemmeno conosciuto. Nello stand russo all’Expo avevo sentito ricordare con grande insistenza la vittoria nella «guerra patriottica» contro Hitler. Sembra tutto così anacronistico, ma si direbbe che in Russia la cultura comunista abbia ancora delle radici profonde. Lei potrebbe spiegarne le cause?

Domenico Spedale
doluspedale@gmail.com

Caro Spedale,
Quella che lei definisce «cultura comunista» è in realtà una sorta di nostalgia per il passato sovietico. Le ragioni cambiano a seconda dei gruppi sociali e della loro età. Le persone più anziane ricordano un periodo della storia russa in cui le principali esigenze erano soddisfatte dallo Stato. Gli scaffali erano spesso vuoti e le code di fronte ai negozi inevitabilmente lunghe. Ma i prezzi erano fissati dalle autorità, gli affitti erano modesti, le case erano riscaldate, la sanità e la scuola erano gratuite. Il collasso dello Stato sovietico ha inceppato la grande macchina dei servizi pubblici. L’inflazione in stile latino-americana degli anni Novanta ha divorato i risparmi depositati nelle Casse di risparmio. I negozi si sono riempiti di nuove merci, ma il vertiginoso aumento dei prezzi le rendeva inabbordabili. Alcuni spregiudicati «capitalisti» hanno approfittato delle privatizzazioni per impadronirsi, a basso prezzo, del patrimonio industriale del Paese, ma hanno creato un enorme divario sociale là dove aveva regnato per più di settant’anni, anche se con parecchie eccezioni, il principio della eguaglianza. L’intervento di Vladimir Putin, dopo il suo arrivo al potere, ha considerevolmente corretto questa situazione e spiega in buona parte la popolarità di cui il presidente russo gode ancora, a giudicare dalle ultime elezioni. Per molti giovani invece l’era sovietica, con i suoi orrori e le sue inefficienze, è pur sempre quella in cui la patria russa era la casa madre di una grande ideologia e, sul piano delle relazioni internazionali, era rispettata e temuta.

La grande vittoria sulla Germania nazista è diventata, in questa prospettiva, la prova tangibile della grandezza russa, la dimostrazione di ciò che i russi possono fare quando combattono uniti sotto la guida di un grande leader. Questo spiega tra l’altro perché Stalin sia ancora, agli occhi di una parte importante della società russa (più del 30%), un eroe nazionale. Non si può parlare della Seconda guerra mondiale senza parlare dell’uomo che era alla guida del Paese nel momento in cui i tedeschi e i loro alleati occupavano l’Ucraina, il Baltico e la Russia occidentale, assediavano Leningrado e Stalingrado. Credo che molti russi siano consapevoli degli orrori dell’epoca staliniana. Ma non si può rinunciare, almeno per il momento, alla memoria dell’uomo che ha portato il Paese alla vittoria.

IL FOGLIO - Luciano Pellicani: "Dimenticare Marx, si può"

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Luciano Pellicani

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Karl Marx

In un articolo pubblicato sul Venerdì della Repubblica, Alfonso Berardinelli, dopo aver ricordato che “nessuna teoria, per quanto buona, resta buona in mano a cattivi esecutori”, scrive che “Marx non era un moralista, purtroppo. La sete di potere, l’impostura, l’ottusità e la perversione dei capi rivoluzionari, non le ha studiate né previste”. Come dire: le idee di Karl Marx erano quelle giuste, ma, sfortunatamente, esse sono state corrotte dai suoi seguaci al potere. Niente di più lontano dalla realtà. Le idee di Marx e di Engels sulla costruzione della società comunista non erano affatto buone. E non lo erano a tal punto che Carlo Cafiero – pur essendo un entusiasta ammiratore del “Capitale”, di cui fece un famoso Compendio – definì il programma di Marx ed Engels “una autentica assurdità reazionaria” a motivo del fatto che esso era tutto centrato sulla creazione di uno stato onniproprietario e, per ciò stesso, onnipotente.

Infatti, nel “Manifesto del Partito comunista” si legge che la rivoluzione comunista doveva abolire “la personalità, l’indipendenza e la libertà borghese”, “distruggendo tutte le sicurezze private e le guarentigie private” e instaurando “una decisissima centralizzazione del potere nelle mani dello stato”. Doveva, in altre parole, radere al suolo lo stato di diritto, bollato quale “comitato di affari della borghesia ”; e doveva altresì “accentrare tutti i mezzi di produzione nelle mani dello stato”, premessa essenziale della costruzione della “società collettivistica, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione”. Nella quale non ci doveva essere spazio alcuno per i diritti dell’uomo e del cittadino poiché questi, a giudizio di Marx, altro non erano che “i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità”. Donde la condanna della “libertà dei moderni”, stigmatizzata come “la libertà dell’uomo in quanto monade isolata, piegata su se stessa, il diritto all’isolamento, il diritto dell’uomo limitato a se stesso”.

Conseguentemente, la separazione fra stato e società civile – una delle più grandi conquiste della storia universale, essendo stata una rara inversione della discesa dalla libertà alla schiavitù in cui è consistito il processo di “civilizzazione” – viene bollata da Marx come “una separazione dell’uomo dalla sua natura comunitaria”, dunque come un fenomeno perverso. E’ appena il caso di ricordare che, sotto la mannaia dell’ideale “spartano” di Marx, cade l’economia di mercato centrata sulla proprietà privata e sulla concorrenza: essa aveva una natura diabolica, poiché, istituzionalizzando la “guerra fra cupidi”, aveva scatenato “il bellum omnia contra omnes”, con il risultato di lacerare ciò che era originariamente un tutto armonioso e compatto. Era, così, iniziato “il tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato inalienabile, divenuto oggetto di scambio, di traffico, poteva essere alienato; il tempo in cui le cose che fino allora erano state comunicate, ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite, ma mai acquistate – virtù, amore speranza, scienza e coscienza, eccetera – tutto divenne commercio, il tempo della corruzione generale, della venalità universale o, per dirla con i termini della economia politica, il tempo in cui ogni realtà morale o fisica, divenuta valore di scambio veniva porta al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore”.

Da questa visione demonizzante del capitalismo, deriva, con logica consequenzialità, l’idea che la rivoluzione comunista esige “l’abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente” in omaggio al nichilistico principio secondo il quale “tutto ciò che esiste è degno di perire” (Engels). Talché quando la Rivoluzione proletaria mondiale esploderà, sarà fatta “piazza pulita del vecchio mondo spettrale” e “un incendio generale brucerà le vecchie istituzioni europee illuminando le nazioni vittoriose verso un futuro libero e felice”: “Il Regno millenario della libertà”. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio programma pantoclastico nel quale è previsto non solo “l’abbattimento violento della borghesia”, ma anche il suo sterminio adottando i sanguinari metodi del Terrore giacobino.

Ciò è dichiarato con la massima franchezza da Marx in un articolo pubblicato il 7 novembre 1849: “Con la vittoria della Repubblica rossa a Parigi gli eserciti saranno rigettati dall’interno dei paesi verso e oltre i confini e la potenza dei partiti in lotta apparirà nettamente. Allora ci ricorderemo del giugno e dell’ottobre, e anche noi esclameremo Vae victis! I massacri senza risultato delle giornate di giugno e di ottobre, la noiosa cerimonia sacrificale del febbraio e del marzo, il cannibalismo della stessa controrivoluzione convinceranno i popoli che c’è solo un mezzo per abbreviare, semplificare, l’agonia assassina della vecchia società e le doglie sanguinose della nuova società, un solo mezzo: il terrorismo rivoluzionario”. Il proposito di vendetta fu ribadito con le identiche parole sei mesi dopo – precisamente il 19 maggio 1849 – in un articolo che si concludeva con queste parole: “Noi non abbiamo riguardi; noi non ne attendiamo da voi.

Quando verrà il nostro tempo non abbelliremo il terrore”. Ancora più truculenta, se possibile, la prosa con la quale Engels formulò i principi “morali” della rivoluzione comunista: “Alle frasi sentimentali offerteci a nome delle nazioni più controrivoluzionarie di Europa, noi rispondiamo che l’odio per i russi è stato e resta ancora la prima passione rivoluzionaria dei tedeschi, che dopo la rivoluzione si è aggiunto l’odio per i cechi e i croati, e che noi, assieme ai polacchi e ai magiari, possiamo salvaguardare la rivoluzione soltanto con il terrorismo più spietato contro questi popoli slavi… Lotta, allora, lotta implacabile per la vita e per la morte, contro lo slavismo traditore della rivoluzione; lotta di annientamento e di terrorismo senza riguardi; e non nell’interesse della Germania, ma nell’interesse della rivoluzione”. Non pago di ciò, Engels non ebbe ritegno alcuno a fare questo agghiacciante annuncio: “La prossima guerra mondiale non farà sparire dalla faccia della terra soltanto classi e istituzioni reazionarie, farà sparire anche interi popoli reazionari. E anche questo sarà un progresso”. Le conseguenze di siffatte idee erano facilmente prevedibili. Ed esse, in effetti, lo furono e con la massima precisione. In una pagina che è bene tenere sempre presente, Pierre-Joseph Proudhon così descrisse la società che i comunisti avevano in mente di creare : “La sfera pubblica porterà alla fine di ogni proprietà; l’associazione provocherà la fine di tutte le associazioni separate e il loro assorbimento in una sola; la concorrenza, rivolta contro se stessa, porterà la soppressione della concorrenza; la libertà collettiva, infine, dovrà inglobare le libertà corporative, locali e particolari”.

L’inevitabile risultato sarà “una democrazia compatta, fondata in apparenza sulla dittatura delle masse, ma in cui le masse avranno avuto solo il potere di garantire la servitù universale, secondo le formule e le parole d’ordine prese a prestito dal vecchio assolutismo: comunione del potere; accentramento; distruzione sistematica di ogni pensiero individuale, corporativo e locale ritenuto scissionistico; polizia inquisitoriale; suffragio universale organizzato in modo tale da sanzionare continuamente l’anonima tirannia, basata sul prevalere di soggetti mediocri o perfino incapaci e sul soffocamento degli spiriti indipendenti, denunciati come sospetti e, naturalmente, inferiori di numero”. La reazione di Marx contro Proudhon fu furibonda. E parimenti furibonda fu la sua reazione contro Bakunin quando questi – in una memorabile pagina di “Stato e anarchia” – così descrisse le conseguenze della rivoluzione comunista centrata sulla così detta “dittatura del proletariato”: “Le parole socialismo scientifico, socialisti scientifici che si incontrano costantemente nelle opere e nei discorsi dei lassaliani e dei marxiani provano per se stesso che il così detto stato popolare non sarà altro che il governo dispotico della maggioranza del popolo da parte di una aristocrazia nuova e molto ristretta di veri o pseudo scienziati. Il popolo, dato che non è istruito, sarà completamente esonerato dalle preoccupazioni di governo e sarà incluso nella mandria dei governati. Che bella liberazione! I marxiani si rendono conto di questa contraddizione e, coscienti che un governo di scienziati, il più opprimente, il più repressivo e il più spregevole del mondo, sarà nonostante tutte le sue forme democratiche una vera dittatura, si consolano con l’idea che questa dittatura sarà provvisoria e di breve durata… Dicono che questo giogo dello stato, questa dittatura è una misura transitoria necessaria per raggiungere l’emancipazione integrale del popolo: l’eguaglianza e la libertà sono il fine, lo stato e la dittatura sono il mezzo. E così per emancipare le masse si dovrà prima di tutto soggiogarle”.

Donde la conclusione : “Da qualsiasi parte si esamini la posizione dei marxisti si arriva sempre allo stesso spiacevole risultato: al governo dell’immensa maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata. Ma questa minoranza, ci dicono i marxisti, sarà di lavoratori. Sì, certamente, di ex lavoratori, i quali, non appena divenuti governanti o rappresentanti del popolo, non saranno più lavoratori e guarderanno il mondo del lavoro manuale dall’alto dello stato; non rappresenteranno più da quel momento il popolo ma se stessi e le proprie pretese di voler governare il popolo. Chi può dubitare di ciò non sa niente della natura umana”. Come si vede, le conseguenze catastrofiche della Rivoluzione bolscevica non possono essere addebitate alla natura corrotta di Lenin e dei suoi seguaci. Erano inerenti al programma comunista, centrato sul monopolio statale dei mezzi di produzione. Donde l’ascesa al potere di quella che Bakunin soleva chiamare la “burocrazia rossa”; la quale, in nome della totale emancipazione degli operai, li ha assoggettati a un regime ancor più duro di quello tipico del capitalismo.

E neanche l’istituzionalizzazione del Terrore bolscevico per purificare la società borghese, corrotta e corruttrice, può essere addebitata a una scorretta lettura delle opere di Marx ed Engels. Nelle quali, in aggiunta, invano si cercherà una teoria positiva del modo di produzione che avrebbe dovuto sostituire il capitalismo. Tant’è che, alla vigilia della Grande guerra, Karl Korsch, pur essendo un socialista marxista, giunse a questa conclusione: “Risulterà assai arduo alla generazione futura capire con quale semplice formula il socialismo dei nostri giorni potesse accontentarsi e quante diverse e in parte opposte aspirazioni si trovassero sotto questa formula. Socializzazione dei mezzi di produzione è la semplice formula con cui il socialismo ha lavorato finora e con cui in Germania andrà avanti presumibilmente ancora per lungo tempo. E’ una formula comune che va bene per i socialisti di stato, sindacalisti, cooperativisti e altre svariate tendenze. Se si domanda a un socialista che cosa intende per socialismo si riceve come risposta, nel caso migliore, una descrizione del capitalismo e l’osservazione che il socialismo eliminerà questo capitalismo con la socializzazione dei mezzi di produzione. Tutto l’accento è posto sull’aspetto negativo, cioè che il capitalismo deve essere eliminato; anche l’espressione socializzazione dei mezzi di produzione significa anzitutto nient’altro che la negazione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Socialismo significa anticapitalismo. Il concetto di socializzazione dei mezzi di produzione ha un significato negativo: nel suo aspetto positivo è vuoto non significa nulla”. Le parole di Korsch aiutano a capire perché Lenin condusse il suo partito all’assalto del vecchio mondo con in testa una sola idea: che il capitalismo andava annientato con tutti i mezzi, compreso il terrore di massa.

Le parole di Korsch aiutano altresì a capire perché il programma del carismatico leader del bolscevismo mondiale – tutto centrato sulla pazzesca idea che distruggere equivaleva a creare – non poteva che produrre quello che di fatto ha prodotto: una smisurata scia di cadaveri e un gigantesco cumulo di rovine materiali e morali. Il che, poi, significa che Lenin fu il fedele “braccio armato” della “mente” che, con infinita arroganza epistemologica, aveva proclamato essere “il comunismo il risolto enigma della storia”.

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