Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/09/2016, a pag. 8, con il titolo "Contro l'incubo dell'invasione l'Europa alza nuove barriere", il commento di Marco Bresolin.
"Paura" non significa sempre debolezza. Dipende dalle circostanze, può indicare debolezza o forza. Di fronte alla penetrazione in Occidente di milioni di musulmani che rifiutano il modello delle libertà in cui noi viviamo, la paura è una reazione comprensibile, anzi l'unico modo per resistere all'islamizzazione di Eurabia e chiamare con il suo nome il nemico che abbiamo davanti.
Ecco l'articolo:
Marco Bresolin
Paura fa sempre rima con chiusura. E nell’Europa intimorita dalle incertezze della crisi economica e dalla minaccia del terrorismo, c’è sempre meno spazio per le porte aperte. Che si tratti di muri eretti ai confini, di maggiori controlli a frontiere che non dovrebbero esistere oppure di limiti fissati per legge all’ingresso di lavoratori stranieri, in ogni Paese si sta alzando il livello di protezionismo del capitale umano. Molto spesso succede dopo che sono stati i cittadini a esprimersi in modo diretto sulla questione, attraverso referendum. Questo perché, su certi temi, chi ha la responsabilità di governare preferisce fare un passo indietro. È successo a giugno in Gran Bretagna, prima ancora ad aprile in Olanda. Succederà domenica prossima in Ungheria, con la consultazione popolare sul piano di ripartizione dei rifugiati. Dare la parola direttamente al popolo, nel nome della democrazia diretta, in linea di principio è un atteggiamento positivo. Ma non è detto che lo siano sempre anche i risultati ottenuti.
«Prima i nostri» è uno slogan che, tradotto nelle diverse lingue, riecheggia in molte campagne elettorali e che trova terreno fertile in un’epoca contrassegnata da paure e incertezze. Il tema dei lavoratori stranieri, provenienti dagli altri Paesi dell’Unione Europea, è stato centrale nella campagna per la Brexit. Pur di porre un freno alla libera circolazione delle persone, con il voto nelle urne i britannici si sono detti pronti a rinunciare anche a quella di beni, servizi e capitali. Ora però chi governa si sta interrogando sul costo dell’uscita dal mercato unico ed è facile immaginare che, durante le trattative con Bruxelles per il divorzio, Londra cercherà in qualche modo di mantenere un piede all’interno. Ma dall’altra parte del tavolo l’orientamento è chiaro: non si può stare nel mercato unico senza la libera circolazione delle persone. Lavoratori, beni e servizi devono essere trattati allo stesso modo.
Un timore simile aveva accompagnato l’altro importante referendum tenutosi quest’anno. Ad aprile l’Olanda ha dato la parola ai suoi elettori per chiedere loro un parere sulla ratifica dell’accordo di associazione tra l’Ue e l’Ucraina. Un voto che è stato letto, giustamente, come un «no» all’Europa. Ma che è stato mosso principalmente dal timore di una «invasione» di lavoratori ucraini in Olanda. Lo stesso timore che si era diffuso in molti Paesi, Italia in testa, quando la Romania stava per fare il suo ingresso nell’Unione Europea. «Una pura follia» la definirono esponenti della Lega Nord, gli stessi che ora lanciano l’allarme sul processo di adesione della Bosnia-Erzegovina, iniziato martedì scorso dopo il primo ok del Consiglio dell’Ue. In questo caso a sollevare le paure non è tanto il rischio che «vengano qui a portarci via il lavoro», ma piuttosto che l’entrata in Europa sia «un cavallo di Troia islamico calato sul Vecchio Continente», come ha detto nei giorni scorso l’eurodeputato del Carroccio Lorenzo Fontana.
Sul fronte economico, i partiti che più spingono sulla necessità di mettere una sbarra ai cancelli d’ingresso ritengono che l’arrivo di lavoratori stranieri abbia effetti negativi sia sul sistema del welfare, sia sul livello degli stipendi. «Loro accettano paghe più basse e così le imprese abbasseranno anche le nostre» è un discorso che si fa per esempio nelle zone dell’Inghilterra a più alta concentrazione di immigrati provenienti dall’Europa dell’Est, ma anche nella Svizzera dei transfrontalieri. Dove il divario tra i salari da una parte e dall’altra del confine rischia di diventare il classico granello di sabbia che fa inceppare il meccanismo.
Emblematico il caso dei polacchi nella contea inglese dell’Essex, dove la cronaca degli ultimi due mesi ha registrato una serie di violente aggressioni. Una sfociata addirittura in omicidio. Gli episodi – citati anche da Jean-Claude Juncker nel suo discorso sullo Stato dell’Unione – hanno creato qualche frizione diplomatica: i ministri polacchi dell’Interno e degli Esteri sono volati a Londra per discutere della questione e hanno denunciato un crescente clima di odio verso i loro connazionali dopo il voto sulla Brexit. Poi, una volta tornati in patria, si sono dedicati alla loro politica interna. Che prevede la totale chiusura delle frontiere e il netto rifiuto di partecipare alla redistribuzione dei richiedenti asilo avviata dall’Europa.
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