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Corriere della sera - Avvenire Rassegna Stampa
20.09.2016 Serve la guerra contro i terroristi islamici, ma Zygmunt Bauman si appella al dialogo universale
Viviana Mazza intervista Paul Berman, Stefania Falasca intervista Zygmunt Bauman

Testata:Corriere della sera - Avvenire
Autore: Viviana Mazza - Stefania Falasca
Titolo: «Ma il Califfato va battuto militarmente - 'Parliamoci: è vera rivoluzione culturale'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/09/2016, a pag. 6, con il titolo "Ma il Califfato va battuto militarmente", l'intervista di Viviana Mazza a Paul Berman; da AVVENIRE, a pag. 6, con il titolo "Parliamoci: è vera rivoluzione culturale", l'intervista di Stefania Falasca a Zygmunt Bauman.

Corretta la scelta di Viviana Mazza di intervistare Paul Berman, che sottolinea come sia necessario anche l'uso della forza militare per vincere la guerra contro il terrorismo islamico, una guerra lunga e difficile ma necessaria per la sopravvivenza stessa dell'Occidente e dei suoi valori.

Avvenire, al contrario, pubblica una intervista a Zygmunt Bauman, capace esclusivamente ad appellarsi al dialogo universale. Non a caso Bauman considera papa Francesco il più grande statista dei nostri tempi, mentre è l'emblema di una Chiesa cattolica incapace di vedere lo scontro di civiltà che pure la investe. Se Bauman ci tiene tanto a incontrare "l'altro", perchè va a cercarlo ad Assisi, e non invece in Siria, Libia, Yemen? Ad Assisi si unisce al coro di quelli che invocano la "pace": troppo comodo, egregio Mister Bauman!

Ecco gli articoli:

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Dialogare con lo Stato islamico? Una scelta suicida

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza: "Ma il Califfato va battuto militarmente "

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Viviana Mazza

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Paul Berman

«Le conseguenze politiche delle bombe di New York e degli accoltellamenti in Minnesota dipenderanno da una cosa: da come verrà giudicato alla fine l’operato della polizia», dice dalla metropoli colpita dagli attentati Paul Berman, scrittore e politologo americano autore di saggi fra i quali «Idealisti e potere» (Baldini Castoldi Dalai) e «Terrore e Liberalismo» (Einaudi).

Come ha agito finora la polizia? «Finora la polizia ha fatto un’ottima figura — anche se forse questo è solo l’inizio della storia. Le forze dell’ordine di New York hanno agito con rapidità eccezionale nell’identificare il terrorista che ha piazzato le bombe a Manhattan. Dietro questa risposta degli agenti c’è ovviamente una grande preparazione. La polizia della piccola cittadina di periferia di Linden, in New Jersey — che ha una popolazione di appena 40 mila persone — ha risposto in maniera eroica. Il poliziotto che ha trovato il terrorista era ben addestrato; il giubbotto anti-proiettile che indossava quasi certamente gli ha salvato la vita, così lui e i suoi colleghi hanno potuto arrestare il colpevole. Insomma, le forze dell’ordine sono apparse competenti, coraggiose, addestrate e pronte ad agire in maniera immediata. Oggi tutti capiscono che è impossibile prevenire del tutto gli atti terroristici. Quello che la gente chiede è un’azione efficace delle forze dell’ordine. Se la polizia appare incompetente o stupida o impreparata, l’opinione pubblica si infurierà e la collera può rapidamente sfociare nel panico. Ma se la polizia agisce al meglio, la reazione della gente sarà di ammirazione verso i leader politici».

Potrà il candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump sfruttare la paura a suo vantaggio e sconfiggere così Hillary Clinton nelle elezioni ormai prossime dell’8 novembre? «In questa situazione, Hillary è l’insider con esperienza, mentre Trump è l’outsider non “collaudato”. Se la polizia fa bene il suo lavoro, Hillary ne trarrà vantaggio politico, e Trump non sembrerà altro che un demagogo isterico. Se invece gli agenti di sicurezza non si mostrano all’altezza, vincerà la demagogia isterica».

Cosa dovrebbe fare Hillary Clinton? «La sua risposta è già stata ottima. Deve mostrare la sua esperienza, e lo sta facendo. Deve far vedere che sa come restare calma, e lo sta facendo. Deve apparire pronta ad agire con forza, e sta facendo anche questo. Eppure, niente di tutto ciò le gioverà se la polizia dovesse fallire».

Questi attentati hanno risvegliato nei newyorchesi la paura dell’11 settembre che sembrava ormai superata? Oppure, in realtà, non se n’era mai andata? Quali sono le reazioni della gente intorno a lei, nel suo quartiere di Brooklyn? «Tutti noi newyorchesi siamo consapevoli che la nostra città è un obiettivo dei terroristi. Tutti ci pensano. È una cosa della vita. In una qualche misura, tutti sono fortificati e pronti al peggio. A New York, il crimine è in calo — e il terrorismo è in crescita».

Questa storia non è ancora finita ed emergeranno di certo nuovi dettagli, ma che cosa possiamo concludere per ora sulla tipologia della minaccia del terrorismo negli Stati Uniti rispetto all’Europa, anche sulla base di precedenti attentati sul suolo americano come quelli di Orlando e San Bernardino? «Dalla serie di attacchi recenti dovremmo imparare che l’Isis e i suoi alleati tra gli altri gruppi jihadisti hanno lanciato con successo una campagna di azioni di cosiddetti “lupi solitari” che però in realtà non sono affatto “lupi solitari”. I loro attentati sono di fatto l’equivalente delle azioni dei cecchini di un esercito. Questi attacchi seguono la teoria militare di Abu Musab al-Suri, il teorico dell’Isis. Continueranno. E in tal modo, continueranno a ricordarci che l’Isis, il suo Califfato in Iraq e in Siria come pure i suoi alleati devono essere sconfitti militarmente, oltre che sotto ogni altro aspetto».

AVVENIRE - Stefania Falasca: "Parliamoci: è vera rivoluzione culturale"

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Stefania Falasca

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Zygmunt Bauman

"Le guerre di religione? Solo una delle offerte del mercato". Zygmunt Bauman, il più acuto studioso della società postmoderna che ha raccontato in pagine memorabili l'angoscia dell'uomo contemporaneo - lo incontriamo ad Assisi prima del suo intervento - ci parla della sfida del dialogo.

Professore, la sua intuizione sulla postmodernità liquida continua a offrire uno sguardo lucido sul tempo presente. Ma in questa liquidità si registra un'esplosione di nazionalismi, identitarismi religiosi. Come si spiegano? Cominciamo dal problema della guerra. II nostro mondo contemporaneo non vive una guerra organica ma frammentata. Non la chiamo guerra di religione, sono altri che vogliono sia una guerra di religione. Non appartengo a chi vuole far credere che sia una guerra tra religioni. Non la chiamo neppure così. Bisogna stare attenti a non seguire la mentalità corrente. In particolare la mentalità introdotta dal politologo di turno, dai media, da coloro che vogliono raccogliere il consenso, dicendo ciò che loro volevano ascoltare. Lei sa bene che in un mondo permeato dalla paura, questa penetra la società. La paura ha le sue radici nelle ansietà delle persone e anche se abbiamo delle situazioni di grande benessere, viviamo in una grande paura. Le persone hanno paura di avere paura, anche senza darsi una spiegazione del motivo. E questa paura così mobile, inespressa, che non spiega la sua sorgente, è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o commerciali. Parlare così di guerre e di guerre di religioni è solo una delle offerte del mercato.

Al panico delle guerre di religione sI unisce quello delle migrazioni. Già anni fa Umberto Eco diceva che per chi voleva capitalizzare la paura delle persone, il problema dell'emigrazione era arrivato come un dono dal cielo.... Si è così. Guerre di religione e immigrazione sono nomi differenti dati oggi per sfruttare questa paura vaga incerta, male espressa e mal compresa. Stiamo però qui facendo un errore esistenziale, confondendo due fenomeni differenti: uno è il fenomeno delle migrazioni e l'altro il fenomeno dell'immigrazione, come ha fatto osservare Umberto Eco. Non sono un fenomeno, sono due differenti fenomeni. L'immigrazione è un compagno della storia moderna, lo Stato modemo, la formazione dello Stato è anche una storia di immigrazione. Il capitale ha bisogno del lavoro il lavoro ha bisogno del capitale. Le migrazioni sono invece qualcosa di diverso è un processo naturale che non può essere controllato, che va per la sua strada.

Come pensa si possa trovare un equilibrio per questi fenomeni? La soluzione offerta dai governi è quella di stringere sempre più il cordone delle possibilità di immigrazione. Ma la nostra società è ormai irreversibilmente cosmopolita, multiculturale e multireligiosa. II sociologo Ulrich Beck dice che viviamo in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario ma non abbiamo neppure iniziato a svilupparne la consapevolezza. E gestiamo questo momento con gli strumenti dei nostri antenati... è una trappola, una sfida da affrontare. Noi non possiamo tornare indietro e sottrarci dal vivere insieme.

Come integrarci senza aumentare l'ostilità, senza separare i popoli? È la domanda fondamentale della nostra epoca. Non si può neppure negare che siamo in uno stato di guerra e probabilmente sarà anche lunga questa guerra. Ma il nostro futuro non è costruito da quelli che si presentano come "uomini forti", che offrono e suggeriscono apparenti soluzioni istantanee, come costruire muri ad esempio. La sola personalità contemporanea che porta avanti queste questioni con realismo e che le fa arrivare ad ogni persona, è papa Francesco. Nel suo discorso all'Europa parla di dialogo per ricostruire la tessitura della società, dell'equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro che non rappresentano una pura carità, ma un obbligo morale. Passare dall'economia liquida ad una posizione che permetta l'accesso alla terra col lavoro. Di una cultura che privilegi il dialogo come parte integrante dell'educazione. Si faccia attenzione, lo ripete: dialogo-educazione.

Perché secondo lei il Papa è convinto che sia la parola che non ci dobbiamo stancare di ripetete? Alla fine il dialogo cos'è? Insegnare a imparare. L'opposto delle conversazioni ordinarie che dividono le persone: quelle nel giusto e quelle nell'errore. Entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare a imparare ad arricchirsi della diversità dell'altro. A differenza dei seminari accademici, dei dibattiti pubblici o delle chiacchiere partigiane, nel dialogo non ci sono perdenti, ma solo vincitori. Si tratta di una rivoluzione culturale rispetto al mondo in cui si invecchia e si muore prima ancora di crescere. È la vera rivoluzione culturale rispetto a quanto siamo abituati a fare ed è ciò che permette di ripensare la nostra epoca. L'acquisizione di questa cultura non permette ricette o facili scappatoie, esige e passa attraverso l'educazione che richiede investimenti a lungo termine. Noi dobbiamo concentraci sugli obiettivi a lungo termine. E questo è il pensiero di papa Francesco, il dialogo non è un caffè istantaneo, non dà effetti immediati, perché è pazienza, perseveranza, profondità. Al percorso che lui indica aggiungerei una sola parola: così sia, amen.

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