Riprendiamo da SETTE di oggi, 16/09/2016, a pag. 66, con il titolo "L'ebreo che si fece musulmano e flirtò coi nazisti e col Duce", il commento di Diego Gabutti.
Due fotografie di Lev Nussimbaum
Mussolini, spada dell'islam
Lev Nussimbaum, alias Essad Bey, alias Kurban Said, nacque ebreo ashkenazita a Baku, sotto Nicola II, e morì musulmano in Italia, sotto Mussolini Dux, per metà sorvegliato speciale e per metà ospite del regime fascista. Storico e saggista, romanziere, incline agli pseudonimi come lo sono anche gli attori e le spie, autore di best seller presto dimenticati, "Kurban Said" era figlio d'un grande petroliere, Abraham Nussimbaum, che passò per un camino a Treblinka nel 1941, e d'una giovane bolscevica, Berta Slutsky o Slutzidn, che morì (forse suicida) prima della rivoluzione d'ottobre, quando Lev aveva soltanto otto anni e il Soviet supremo, per non parlare del Comintern, l'Internazionale comunista fondata a Mosca nel 1919, erano ancora nel mondo della luna.
In famiglia, molti anni più tardi, si sarebbe mormorato che Berta fosse amica di Stalin e vicina al suo gruppo di ''espropriatori" e di tagliagole georgiani che alimentavano le casse del partito leninista (all'epoca ancora un gruppuscolo) rapinando banche e assaltando vagoni postali come i bandidos messicani e i gringos nei film di Sam Peckinpah. Sembra addirittura che Stalin, quando la polizia zarista gli dava la caccia nei primi anni del secolo, avesse trovato rifugio per qualche mese a Baku, ospite dei Nussimbaum. All'epoca Lev, nato nel 1905, era molto piccolo, sempre che fosse già nato. Nel 1931, ancora giovanissimo ma scrittore già affermato, avrebbe dedicato a Stalin una biografia (Stalin, Garzanti 1946).
Non è una biografia particolarmente bella, né particolarmente informata, ma è una delle prime, se non la prima in assoluto, in anticipo persino sullo Stalin di Boris Souvarine (Adelphi 1983), un classico della letteratura politica novecentesca che uscì in prima edizione soltanto quattro anni più tardi, nel 1935. A differenza della madre, in ogni modo, che forse era stata un membro del Mucchio selvaggio staliniano o forse no, che forse era morta suicida o forse no, Lev Nussimbaum non aveva nessuna simpatia per l'espropriatore georgiano, che nei primi anni Trenta, sconfitto Trotsky e messa ormai quasi del tutto a punto la sua macchina dell'apocalisse per le repressioni di massa, s'avviava a diventare il Padre (e Padrone) dei popoli.
"Essad Bey", nel suo libro, non lo chiama mai «Stalin», e nemmeno «losif Vissarionovic Diugasvili», ma sempre e soltanto «il seminarista», oppure «iI butterato», e si capiva benissimo che non avrebbe voluto scriverne la biografia ma iI necrologio. «Quell'uomo», scrisse, «mi ha portato via la casa, la madre, tutto». Insieme a suo padre e pochi altri parenti, lasciò Baku per Berlino, dove si laureò nella facoltà d'orientalistica a prezzo d'enormi sacrifici economici da parte della sua famiglia, e dove pubblicò i suoi primi libri. A dimostrazione che le passioni ideologiche e gli eccessi dell'epoca non gli erano poi così estranei, scrisse anche una biografia di Lenin (Lenin, Fratelli Treves 1935) e una di Maometto (Maometto, il profeta dell'Islam, Giunti 1999).
Detestava il primo quasi quanto detestava Stalin. Ma fu incantato dal secondo, al punto che si fece musulmano, forse per convinzione, forse per confondere le tracce ai cacciatori d'ebrei, sempre più minacciosi, e ormai sul punto di conquistare la Germania. Tra il 1905 e il 1942, cioè nel breve arco della sua vita, Lev Nussimbaum passò dagli splendori della borghesia petrolifera russa fin de Miele agli stenti e alle miserie dell'apolide. Viaggiò attraverso l'Asia centrale e s'innamorò a prima vista delle popolazioni che inneggiavano a Yahweh o ad Allah e volevano liberarsi del giogo imperiale prima russo e poi sovietico agitando le scimitarre nell'aria. Si fece amici e nemici, esaltò la violenza e ne ebbe terrore, visse a Napoli e New York. Sposò un'ereditiera ricca a miliardi e divorziò da lei senza che gli restasse tra le unghie nemmeno un copeco, ma soltanto cattivi ricordi. Frequentò cattive compagnie e alcune anzi cattivissime.
Visse come un personaggio dei fumetti di Hugo Pratt. Cercò di farsi amici i capi nazisti. S'arruffianò i fascisti grazie alla reputazione d'anticomunismo che s'era conquistato con i suoi libri sui leader bolscevichi e Mussolini lo confinò a Positano dove morì a 37 anni del «motto di Raynaud, un male che provoca la progressiva necrosi del piedi». Scrisse libri magari non importantissimi e tuttavia notevoli e pieni di colore sull'islam, sull'ebraismo e sui conflitti religiosi, sul bolscevismo e sul crepuscolo degli europei. Ma soprattutto fuggì per tutta la vita a gambe levate. Come Franz Tunda, il protagonista di Fuga senza fine di Philip Roth, che comincia a scappare dopo il finimondo che ha cancellato la vecchia Europa dalla faccia del mondo e trasformato gli europei in stranieri e apolidi all'interno delle loro stesse frontiere, come tutti i suoi contemporanei ancora per molte generazioni dopo la sua, anche Essad Bey era inseguito dal Grande nemico: la rivoluzione, o meglio da entrambe le rivoluzioni, quella socialista e quella nazionalista, sorelle e nemiche, l'una concava, l'altra connessa.
Avanzando e ritirandosi, un tiro di dadi dopo l'altro, sul tavoliere da Risiko della Prima guerra mondiale, erano stati dapprincipio gli eserciti combattenti a separare gli uomini tra loro, nazione contro nazione e trincea contro trincea, ma fu la rivoluzione socialista d'ottobre a rendere definitiva questa separazione cambiando a sorpresa tutte le regole del gioco ed esportando il fronte di guerra all'interno di ciascuna nazione, classe contro classe, banda armata contro banda armata, destra contro sinistra.
A ruota, come Lev Nussimbaum e i suoi amici toccarono subito con mano, seguirono le controrivoluzioni nazionali: le annate bianche nella Russia postrivoluzionaria, il fascismo italiano, il nazionalsodalismo tedesco e poi tutti gli altri nazionalismi impazziti, le utopie razziste e I fanatismi religiosi (che si sarebbero evoluti nel tempo, dal genocidio degli armeni nel 1914-1915 su su fino al moderno fondamentalismo islamico, ad al Qaeda e all'Isis). È questa l'eredità che la Prima guerra mondiale ha trasmesso a tutti gli uomini del XX secolo e di cui, cent'anni dopo, sta ancora ricadendo il fallout. Sarebbe stata la letteratura, compresi i best seller di Essad Bey, ma soprattutto Isaak Babel e Bertolt Brecht, Erich Maria Remarque e Thomas Mann, Irene Némirovsky e Karl Kraus, a raccontare nei particolari questa storia. Una storia — come scrisse Joseph Roth nel suo splendido reportage dall'Unione sovietica, Viaggio in Russia, Adelphi 1981 — in cui «tutti hanno l'aspetto di gente che si è messa addosso qualcosa» (per esempio un costume da principe ottomano, come Lev Nussimbaum nelle fotografie degli anni Trenta) «mentre stava fuggendo davanti a una catastrofe». E fu sempre la letteratura a conservare nelle sue pagine, comprese quelle più truculente e strappa-core, il ricordo del «mondo di ieri», come l'avrebbe poi chiamato Stefan Zweig: un mondo irrimediabilmente perduto.
Come scrisse Joseph Roth, sempre nelle sue corrispondenze dall'Urss: «Il principe russo che fa lo chaffeur a Parigi guida il suo taxi dritto nella letteratura moderna». C'è una foto inquietante in un magnifico libro (L'orientalista. L'ebreo che volle essere un principe musulmano, Garzanti 2008) che Tom Reiss ha dedicato a Nussimbaum e al suo tempo un gruppo di bambini ebrei e musulmani raccolti sotto un simbolo cristiano, l'albero di Natale. Siamo a Baku, è l'inverno del 1913, mancano pochi mesi alle dichiarazioni di guerra, eppure sembra che il mondo si stia evolvendo in una direzione che oggi, due o tre guerre mondiali più tardi, siamo incapaci anche soltanto d'immaginare. Quella delle famiglie ebree e musulmane che festeggiano insieme il Natale era la società cosiddetta «imperfetta» (un'utopia prima che le Utopie entrassero in scena armate di Mauser, di candelotti di dinamite e di manifesti futuristi) in cui Essad Bey era cresciuto: niente passaporti, rari gli sbirri, nessuna divisione religiosa, tutti intorno all'albero di Natale, niente jihad, l'ecumene.
Meno d'un anno dopo, nel 1914, quando l'attentato di Sarajevo fece cadere la prima tessera del domino planetario, il Natale ebraico-musulmano di Baku era diventato del tutto inconcepibile. Lev Nussimbaum, con i suoi libri scritti sotto pseudonimo e con quel suo ridicolo turbante da saraceno delle Figurine Liebig o da turco napoletano, come Totò nel film omonimo, il biografo di Stalin nato da un capitalista ebreo e da una bolscevica in fama d'espropriatrice, nemico dei soviet e (per un po', ahilui) amico di Goebbels e dei ras italiani, tenne un esatto e puntuale diario di bordo di questa immane tragedia: la fine del multiculturalismo nell'est europeo e l'improvviso, devastante blackout della democrazia da un capo all'altro del continente. Celeberrimo negli anni Venti e Trenta, autore di best seller tradotti in tutte le lingue, tra cui Ali e Nino (Imprimatur 2013), il suo testamento umano e politico, love story tra un musulmano azero e una cristiana della Georgia che firmò «Kurban Said», forse è tempo di riscoprire le sue opere e di provare a leggerle.
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