Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/09/2016, a pag. 46-47, con il titolo "Rushdie: 'Il lato oscuro dell'islam non vincerà' ", l'intervista di Anais Ginori a Salman Rushdie.
Anais Ginori
Salman Rushdie
«Spesso ce lo dimentichiamo, ma esiste un altro volto dell’Islam: aperto, raffinato, cosmopolita ». Salman Rushdie cita il filosofo andaluso Averroè per ricordare un’età dell’oro del pensiero islamico. «È un filosofo paradossalmente più importante e noto in Occidente per i commenti su Aristotele, fondamentale anche nel Rinascimento italiano » ricorda lo scrittore, ospite d’onore del Positive Economy Forum organizzato da Jacques Attali. Il padre del romanziere era uno studioso appassionato di Averroè, chiamato anche Ibn Rushd, tanto che se n’è ispirato quando ha cambiato il cognome della famiglia. Sono passati ventisette anni dalla fatwa contro Rushdie per I Versi Satanici, dall’inizio di una vita blindata che ha raccontato nel memoir Joseph Anton, nome che aveva in clandestinità. Rushdie ha continuato la sua carriera di scrittore, è tornato a una lenta normalità, ha pubblicato nel 2015 una favola comica e surreale, Due anni, otto mesi & ventotto notti, nella quale parla anche della lotta tra Averroè, portatore di Lumi all’interno della religione, e il rivale teologo persiano Al-Ghazali, dalla parte delle tenebre.
Teme che nell’Islam possano vincere le tenebre? «La lotta tra luce tra luci e tenebre è sempre esistita, non c’è bisogno di andare fino ad Averroè e al Dodicesimo secolo. Negli anni Cinquanta, Beirut era una città piena di vita culturale e libertà, era stata ribattezzata la “Parigi del Medio Oriente”. Lo stesso era per Damasco, Teheran, Bagdad: erano posti di grande raffinatezza, città cosmopolite e moderne dove si poteva fare tutto, non c’erano donne col burqa, gli scrittori non erano condannati a morte per ciò che scrivevano e neppure gli omosessuali. La regressione è andata molto veloce. Io, come molti, l’ho potuta osservare nel corso di una vita. Purtroppo questo volto dell’Islam è in parte scomparso, ma possiamo sperare che torni. È per questo che non amo l’espressione “scontro di civiltà”. È riduttiva e sbagliata. Tutto è molto più complicato, dietro c’è soprattutto la lotta tra sciiti e sunniti».
"I versi satanici" (Mondadori ed.)
Papa Francesco sostiene che esistono anche forze economiche che strumentalizzano la religione. «Mio Dio, questo Papa è davvero un marxista! Una delle cose che abbiamo imparato negli ultimi decenni è che l’economia non è tutto e le ideologie sono ancora molto potenti. Anche Marx si era sbagliato. Ma anche io, nel mio piccolo, non avrei mai previsto un ritorno così prepotente della religione come sta avvenendo nella nostra epoca. Per mestiere mi dedico alla vita intellettuale, quindi non sono un esperto, ma se guardiamo all’aumento dei fanatismi, non solo quello islamico ma anche di altro tipo, per esempio quello indù in India, vediamo che l’origine è nell’ideologia e non nei fattori economici. La gente è capace di fare cose incredibili in nome di un’idea».
I francesi sono sotto attacco anche per un modello di laicità che si fa fatica a capire all’estero. Lo condivide? «Certo, sono uno strenuo difensore della laicità e della libertà di espressione. Non ho capito come mai tanti scrittori, anche miei amici, non abbiano voluto dare il premio del Pen Club al giornale Charlie Hebdo. È un segno dei tempi. Ma i francesi sono forti, anche se vedo che hanno molta paura. Io dico: Courage! Ricordo il periodo del terrorismo dell’Ira in Gran Bretagna, con continui attentati e una tensione perenne. Ero impressionato nel vedere i britannici continuare la vita come se niente fosse, forse perché non c’era altro da fare. Ho vissuto anche nella New York dell’11 Settembre. Subito dopo l’attacco, i newyorchesi erano effettivamente molto spaventati, disorientati, persino affettuosi. Passati pochi giorni hanno ricominciato a essere se stessi: ovvero indifferenti, duri, implacabili. Per fortuna».
La sua carriera di scrittore sarebbe stata diversa se non fosse stato vittima di una fatwa? «È una domanda che mi sono posto molte volte. Una parte di lettori probabilmente ha scoperto le mie opere sull’onda della curiosità suscitata dalla mia condanna a morte. Ma ho incontrato molte persone che non hanno letto I Versi satanici perché dalle polemiche si erano fatti un’idea sbagliata, pensavano fosse un saggio teologico noioso, blasfemo, mentre è un libro divertente, almeno così l’ho concepito. La verità: molti ne parlano senza averlo mai letto. Dopo la fatwa, il problema è stato cercare nei miei libri allegorie o metafore sull’Islam, mentre a me non interessa lanciare ogni volta messaggi. Amo un certo surrealismo, la fiction».
Cosa direbbe a un giovane che è attratto dal fanatismo, dalla jihad? «L’unica nostra arma è quella di continuare a discutere. Per quanto mi riguarda scrivo, ma c’è chi fa musica, dipinge, cinema, le arti in generale sono fondamentali per nutrire la vita intellettuali dei giovani. Mi preoccupa che in molte parti del mondo, credo anche in Francia e in Italia, i governi stiano tagliando le sovvenzioni. Una società che vuole combattere i fanatismi, ma anche provare a costruire il suo futuro, deve conoscere il suo passato, imparare a riflettere, alimentare il dibattito delle idee. Oggi purtroppo si tende a pensare che lo studio delle scienze e delle tecnologie sia sufficiente. Non è così. Quando leggi un libro, scopri altri mondi, nuovi modi di pensare, e lasci una traccia per le future generazioni».
Quando scrive, si preoccupa di lasciare una traccia? «Non teorizzo nulla sul mio modo di lavorare ma sono felice quando incontro giovani lettori di I figli della mezzanotte, ragazzi che non erano neppure nati all’epoca della prima pubblicazione. Probabilmente tutti gli scrittori sognano in un angolo della loro testa di poter essere letti dalle future generazioni. Non esiste una ricetta per passare ai posteri, mi piacerebbe pensare che i miei libri mi sopravviveranno. Sottoscrivo un’immagine di Aimé Césaire: vorrei pensare che dopo la mia morte sarò uno scaffale nelle librerie: da qui a qui, sono io».
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