Perché a Mosca
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: Benjamin Netanyahu. Sotto: il Gaon di Vilna, massimo genio dell'ebraismo nel Settecento
Cari amici,
come avete letto, sia Netanyahu sia Muhammad Abbas hanno accettato in linea di principio l’invito di Putin a un incontro da tenersi a Mosca con l’obiettivo di far ripartire il processo negoziale. Non è detto che l’incontro ci sia, perché Israele non accetta “precondizioni” alla trattativa, come quelle chieste negli ultimi anni dall’Autorità Palestinese: il blocco delle costruzioni nelle comunità ebraiche oltre la linea armistiziale del ‘49 (quella che i filopalestinesi mistificano come “i confini del ‘67”), la liberazione di criminali arabi processati, condannati e detenuti per gravi reati a motivazione terroristica e perfino l’accettazione delle linee armistiziali appena citate come confini fra Israele e un inesistente “Stato di Palestina” che Israele dovrebbe con ciò già riconoscere. Nelle ultime comunicazioni pubbliche Abbas ha fatto dire ai suoi che non chiedeva più le precondizioni, ma ha fatto aggiungere, con la solita doppiezza, che la cessazione delle costruzioni negli insediamenti ebraici era un atto di “obbedienza alla legge internazionale” (falso, ma non voglio discuterne qui) e non una precondizione, ma che comunque andava deliberato prima che fossero possibili trattative.
Per questa ragione e per altre ancora, come l’incertezza politica nell’Autorità Palestinese e la percezione israeliana dell’inaffidabilità di qualunque impegno prenda una dirigenza traballante come quella di Abbas, oltre alle generali turbolenze del Medio Oriente, non è affatto detto che l’incontro si faccia davvero; ma è significativo che sia stato accettato in linea di principio. Perché in questa maniera è Putin che si mette a fare il mediatore e quindi si assume un ruolo di responsabile della tranquillità della regione. Questa è una novità assoluta, perché finora questo era il posto dell’America. E non bisogna pensare che si tratti solo dell’inevitabile viale del tramonto per una presidenza cui restano meno di quattro mesi; perché anzi, una delle ragioni che sono state indicate per la scelta di Netanyahu di accettare la mediazione russa sta proprio nell’evitare un’iniziativa avventata e ideologica di Obama dopo le elezioni di novembre, quando in sostanza non avrà freni interni alla sua azione e non dovrà rispondere a nessuno: il fatto di avere trattative in corso o progettate con la Russia renderà comunque più difficile l’approvazione di una risoluzione antisraeliana al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che Obama potrebbe voler far passare.
Le ragioni sono più profonde. L’America, cioè l’Occidente, ha rinunciato a esercitare il ruolo decisivo che Inghilterra e Francia e poi gli Usa avevano avuto in Medio Oriente nell’ultimo secolo. Obama paga riscatti allo stato canaglia dell’Iran per liberare suoi cittadini ingiustamente arrestati, lascia umiliare la sua marina dai barchini persiani, non obietta in sostanza alla preparazione di un armamento aggressivo della repubblica islamica che non solo già ha in possesso Iraq e Libano, ma minaccia Israele, i paesi del golfo e in prospettiva anche l’Europa. In questa situazione di abbandono e ritirata strategica, l’egemonia sul Medio Oriente è ormai della Russia, che è alleata strategica dell’Iran (nonostante il corteggiamento sbracato di Obama) e dunque di Assad, ma ha trovato accordi anche con la Turchia e con l’Egitto nemici storici dei persiani. Insomma, ha l’egemonia nella regione.
In questo quadro è completamente saltata la strategia dei tre cerchi che aveva caratterizzato la politica israeliana fino a poco fa: un primo cerchio vicino di nemici arabi, compensato da un secondo cerchio più esterno di alleati dubbi ma antiarabi (Turchia, Iran, Etiopia), il quale si inquadrava in un terzo cerchio mondiale diviso in due campi: gli alleati e spesso veri e propri amici dell’Occidente, i nemici dell’Est. Questo è il quadro che avevano in mente Ben Gurion, Golda Meir, Abba Eban. Oggi la situazione è assai diversa: gli ex alleati del secondo cerchio (Iran, Turchia) sono diventati più o meno nemici, impaurendo però anche il primo cerchio (gli arabi sunniti) fra cui molti hanno stretto una sempre meno tacita alleanza operativa con Israele. Quanto al terzo cerchio, i grandi amici di un tempo (Europa e Usa), semmai sono stati davvero tali, ma vi sono forti indizi in senso contrario, cosa che andrebbe storicamente discussa, ora i loro vertici sono certamente poco amici di Israele e si impegnano assai più a contrastarlo che ad aiutarlo. Mentre la Russia ha offerto anche a Israele se non amicizia una comprensione certamente interessata, ma reale perché fondata nei rapporti di forza sulla logica geopolitica e non sull’ideologia. E Netanyahu ha fatto bene a cercare di stringere accordi e di aprire canali di consultazione con la Russia: negli ultimi mesi ha visto quattro volte Putin e nessuna Obama, non certo solo per sua scelta.
Naturalmente non bisogna illudersi. Putin è in sostanza un dittatore, ha un disegno di potenza e anche se tiene conto della popolazione russofona di Israele, aprendo dei varchi nel muro antico della diffidenza fra i due paesi vuole certamente evitare problemi imprevisti in Siria e magari mettere in difficoltà gli Usa, più che essere mosso da improvviso filosionismo. E Netanyahu ha fatto bene a sottolineare che Israele sotto la sua direzione ha aperto molti nuovi rapporti una volta inibiti dall’ideologia (per esempio con Cina, India, paesi africani) e che per struttura politica, legami familiari e popolazione con doppio passaporto, per concezione del mondo e collaborazione militare l’America resta il grande amico di Israele.
Ma mentre Abbas ha accettato le trattative per debolezza, o perché come agente “talpa” non poteva dire di no al suo (ex) superiore del KGB Putin, il consenso di Netanyahu è il frutto di una politica libera e molto accorta, che non fa giri di valzer (come si diceva una volta), ma riesce a rompere sempre l’isolamento in cui i nemici cercano di cacciare Israele. E’ una partita aperta, che resterà tale almeno fino alle elezioni americane e a quelle che determineranno le politiche europee - ammesso che si facciano davvero, come l’esempio austriaco e la mancanza di reazioni in Europa ai ridicoli pretesti del furto di democrazia che vi avviene lascia purtroppo dubitare. Questo è il tema futuro probabilmente più importante per Israele: come riuscire a reagire nel modo migliore a una situazione in cui le alleanze cambiano, gli schieramenti strategici traballano, l’Occidente ormai non è in grado di distinguere il suo stesso interesse (o piuttosto non lo è la sua direzione politica, che cerca di scomunicare le reazioni di chi vuole continuare a difendersi). Su questo piano, che solo in parte può essere esplicito e ben visibile all’opinione pubblica, Netanyahu sta facendo un eccellente lavoro.
Ugo Volli