Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/9/2016, tre servizi sui 15 anni dall'attacco alle Torri Gemelle, l'editoriale di Maurizio Molinari, il commento di Gianni Riotta e l'intervista di Francesca Paci a Bernard-Henri Lévy.
9/11, nine eleven, due numeri che non dobbiamo mai dimenticare,anche se non è vero che l'obiettivo del terrorismo islamico è il dominio delle terre dell'islam, questo ce lo siamo inventati in Occidente per non 'preoccupare l'opinione pubblica', quella stessa che oggi -come scrive acutamente Gianni Riotta- si chiede "come avevamo fatto a non capire".
Alt, erano in tanti ad aver capito, informazione corretta, ad esempio, era nata nel marzo dello stesso 2001, l'odio contro Israele e gli Usa esplodeva in tutti i paesi musulmani con la complicità dei paesi europei. Fatti che bisognava essere ciechi per non vederli. Ma le democrazie erano troppo impegnate a occuparsi dei palestinisti per accorgersi che l'attacco alle Twin Towers era stato preceduto da una prova generale - lo ricorda ancora Gianni Riotta.
Oggi la storia si ripete, nell'attesa di riproporre la stessa domanda fra qualche tempo: ma come abbiamo potuto non capire in tempo ciò che stava per accadere! I media sono specializzati nelle rievocazioni, sono le previsoni che non interessano, perchè per valutarle seriamente occorre coraggio e onestà intellettuale, oltre che intelligenza. Tre qualità purtroppo rare.
Maurizio Molinari: " Agenda comune per vincere il terrorismo "
Maurizio Molinari
L’intesa fra Mosca e Washington sulla possibilità di condurre raid congiunti in Siria contro i gruppi jihadisti crea le premesse per un’offensiva massiccia contro Raqqa, capitale dello Stato Islamico, lasciando intendere quanto sia aumentata la minaccia del terrorismo islamico a 15 anni di distanza dagli attacchi dell’11 settembre. Quell’aggressione dal cielo all’America fu l’inizio dell’offensiva jihadista su scala globale che, pur con leader e sigle differenti, resta a tutt’oggi la maggiore minaccia alla sicurezza collettiva come spiega Bernard-Henry Lévy nell’intervista che pubblichiamo su questo giornale. La scelta di Osama bin Laden di adoperare 19 kamikaze per dirottare quattro aerei di linea, trasformarli in missili, lanciarli contro New York e Washington e mettere a segno contro gli Stati Uniti l’attacco più sanguinoso dai tempi di Pearl Harbor è stata frutto dell’ideologia jihadista che teorizza la guerra permanente agli infedeli, al fine di dominare le terre dell’Islam. Bin Laden è stato eliminato, la sua Al Qaeda decimata e i taleban che la ospitavano non sono più al potere in Afghanistan ma il jihadismo è assai più aggressivo di allora: lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi ne ha preso lo scettro ed attorno a lui una miriade di gruppi, clan, tribù e fazioni, dallo Stretto di Gibilterra al deserto del Gobi, se ne sentono interpreti e protagonisti. Sono spesso in competizione fra loro ma in comune hanno l’avversione alla modernità teorizzata da Hassan El Banna nel 1928, declinata in dottrina del martirio da Sayyid Qutb negli Anni Sessanta e divenuta manifesto strategico con il patto fra Bin Laden e Ayman al-Zawahiri che nel 1998 lanciò la «Jihad contro gli ebrei ed i crociati» puntando anzitutto ad eliminare tutti quei musulmani «apostati» che non la condividono. È un conflitto che insanguina Londra e Parigi, Tel Aviv e Dacca, Tunisi e Istanbul, San Bernardino e Orlando, con attacchi pianificati da gruppi jihadisti o realizzati da singoli contagiati da questo virus ideologico. L’Occidente finora ha reagito in ordine sparso, senza riuscire a trovare una comune dottrina di sicurezza per affrontare il primo vero avversario del XXI secolo, ma ciò non toglie che alcuni segnali positivi di reazione si intravedono: la necessità diffusa di una maggiore cooperazione nella sicurezza fra alleati, gli interventi militari basati su truppe speciali e intelligence, le operazioni multinazionali come quella annunciata da Sergei Lavrov e John Kerry, la determinazione a difenderci senza intaccare le libertà civili ed il sostegno a chi dentro l’Islam contrasta i jihadisti sono direzioni di marcia capaci di portare a formulare una risposta efficace. Ma poiché si tratta di un conflitto di lungo termine combattuto contro nemici feroci senza divisa che aggrediscono civili inermi, ciò che in ultima istanza può fare la differenza è la capacità dei singoli di contribuire alla sicurezza collettiva. Prendendo esempio da quanto fece 15 anni fa sui cieli della Pennsylvania il trentenne Todd Beamer quando a bordo del volo UA93 gridò «Let’s roll» guidando la rivolta spontanea dei passeggeri che sacrificarono la vita per impedire ai jihadisti di completare il proprio piano di morte. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI L’intesa fra Mosca e Washington sulla possibilità di condurre raid congiunti in Siria contro i gruppi jihadisti crea le premesse per un’offensiva massiccia contro Raqqa, capitale dello Stato Islamico, lasciando intendere quanto sia aumentata la minaccia del terrorismo islamico a 15 anni di distanza dagli attacchi dell’11 settembre. Quell’aggressione dal cielo all’America fu l’inizio dell’offensiva jihadista su scala globale che, pur con leader e sigle differenti, resta a tutt’oggi la maggiore minaccia alla sicurezza collettiva come spiega Bernard-Henry Lévy nell’intervista che pubblichiamo su questo giornale. La scelta di Osama bin Laden di adoperare 19 kamikaze per dirottare quattro aerei di linea, trasformarli in missili, lanciarli contro New York e Washington e mettere a segno contro gli Stati Uniti l’attacco più sanguinoso dai tempi di Pearl Harbor è stata frutto dell’ideologia jihadista che teorizza la guerra permanente agli infedeli, al fine di dominare le terre dell’Islam. Bin Laden è stato eliminato, la sua Al Qaeda decimata e i taleban che la ospitavano non sono più al potere in Afghanistan ma il jihadismo è assai più aggressivo di allora: lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi ne ha preso lo scettro ed attorno a lui una miriade di gruppi, clan, tribù e fazioni, dallo Stretto di Gibilterra al deserto del Gobi, se ne sentono interpreti e protagonisti. Sono spesso in competizione fra loro ma in comune hanno l’avversione alla modernità teorizzata da Hassan El Banna nel 1928, declinata in dottrina del martirio da Sayyid Qutb negli Anni Sessanta e divenuta manifesto strategico con il patto fra Bin Laden e Ayman al-Zawahiri che nel 1998 lanciò la «Jihad contro gli ebrei ed i crociati» puntando anzitutto ad eliminare tutti quei musulmani «apostati» che non la condividono. È un conflitto che insanguina Londra e Parigi, Tel Aviv e Dacca, Tunisi e Istanbul, San Bernardino e Orlando, con attacchi pianificati da gruppi jihadisti o realizzati da singoli contagiati da questo virus ideologico. L’Occidente finora ha reagito in ordine sparso, senza riuscire a trovare una comune dottrina di sicurezza per affrontare il primo vero avversario del XXI secolo, ma ciò non toglie che alcuni segnali positivi di reazione si intravedono: la necessità diffusa di una maggiore cooperazione nella sicurezza fra alleati, gli interventi militari basati su truppe speciali e intelligence, le operazioni multinazionali come quella annunciata da Sergei Lavrov e John Kerry, la determinazione a difenderci senza intaccare le libertà civili ed il sostegno a chi dentro l’Islam contrasta i jihadisti sono direzioni di marcia capaci di portare a formulare una risposta efficace. Ma poiché si tratta di un conflitto di lungo termine combattuto contro nemici feroci senza divisa che aggrediscono civili inermi, ciò che in ultima istanza può fare la differenza è la capacità dei singoli di contribuire alla sicurezza collettiva. Prendendo esempio da quanto fece 15 anni fa sui cieli della Pennsylvania il trentenne Todd Beamer quando a bordo del volo UA93 gridò «Let’s roll» guidando la rivolta spontanea dei passeggeri che sacrificarono la vita per impedire ai jihadisti di completare il proprio piano di morte.
Gianni Riotta: " Come avavamo fatto a non capire che sarebbe successo"
Gianni Riotta
La mattina del 10 settembre 2001 portai mia figlia Anita alla fermata del bus scolastico, per il primo giorno di asilo a Chapin, la scuola di New York dove aveva studiato anche la Jackie Kennedy. Un papà gentile, completo chiaro da businessman, accompagnava la sua bambina, con l’identico grembiulino e le incoraggiammo insieme a salire sul bus. Mi strinse la mano, e - da newyorkese - fece subito programmi di «playdate», giochi in comune, «Mettiamoci d’accordo, le portiamo un giorno per uno». Lavorava alla finanziaria Cantor Fitzgerald, tra i piani 101 e 105 del World Trade Center, Torre Nord, dove il giorno dopo, l’aereo American Airlines dirottato da Al Qaeda, lo uccise con 658 dei 960 impiegati. Allora credevamo che la Guerra Fredda fosse finita, lasciando posto a un’intesa internazionale con le grandi potenze e l’Onu, come nei Balcani, a sciogliere conflitti in democrazia. Credevamo che confini e scambi liberi fossero progresso, un miliardo di esseri umani, tra Cina, India e America Latina, aveva appena lasciato la fame per il benessere, nel più grande salto fuori dalla miseria che la storia ricordi. Steve Jobs era un’icona e il web speranza di democrazia e dialogo, la tecnologia non sembrava distruggere occupazione per il ceto medio, ai complotti credeva ormai solo il regista Oliver Stone. Il terzo millennio incenerì quelle speranze, nella sabbia che a lungo piovve velenosa su Manhattan, parte cemento delle orgogliose Torri, parte polvere di uomini come ad Auschwitz. Visitai a Staten Island, per questo giornale, la discarica di Fresh Kills, il nome agghiacciante presagio della brughiera dove venivano setacciate le macerie trasportate da Ground Zero, e ogni giorno le memorie riaffioravano, una tibia da esaminare al Dna, un orologio d’oro con le iniziali, lancette fermate dall’odio, una foto di vacanze, il chip di un computer. Per anni studiai la «guerra asimmetrica», per capire come la rivolta del fondamentalismo islamico non fosse riducibile alla «pace» in Medio Oriente, rompendomi la testa - come tanti - per capire come fossimo stati così ciechi. All’ambasciatore Robert Oakley, l’americano che più conosceva il nuovo terrorismo, chiesi prima che morisse «Se l’aspettava?», e nel suo formidabile candore Oakley rispose «Restai folgorato, e subito dopo mi dissi, Bob, come hai fatto a non vedere?». Rick Rescorla, veterano degli eserciti inglese e americano, sopravvissuto per miracolo alla battaglia di Ia Drang, Vietnam, 1965, quella del film di Mel Gibson «Fino all’ultimo uomo», aveva visto. Responsabile della sicurezza della finanziaria Morgan Stanley alle Torri Gemelle, dopo il primo attentato del 1993, aveva spiegato ai dirigenti che il prossimo attacco sarebbe stato aereo, Rescorla credeva a un velivolo carico di esplosivo e costringeva i colleghi, sbuffanti, a estenuanti esercitazioni su e giù per le scale. L’11 settembre Rescorla guida i 2700 lavoratori di Morgan Stanley, uno per uno, alla salvezza, rassicura al cellulare la moglie, poi - senza che il dovere glielo chieda - rientra nelle Torri a salvare sconosciuti, incoraggiandoli con antiche ballate della sua Cornovaglia al megafono. Non si ferma fino al crollo, l’hanno visto per l’ultima volta al decimo piano, tutti scappavano, lui risaliva. Sua moglie aveva ritrovato, nascoste in un cassetto, le medaglie del Vietnam, esclamando «Rick, sei un eroe e non me l’hai mai detto!» aveva rimesso da parte subito le decorazioni, mormorando «Gli eroi sono tutti morti». Gli eroi sono tutti morti, viviamo in un mondo senza eroi, pronto a disprezzare ogni ideale, ogni sogno, ogni sacrificio nobile nel post volgare di un troll miserabile. K., il manager papà della compagna di mia figlia, Rescorla, sono tra i tanti eroi silenziosi di quel giorno e a loro ripenso oggi, certo che, per lunga e travagliata che possa essere la stagione di guerra all’odio dell’intolleranza, le forze del bene, della ragione e della luce, alla fine, prevarranno. Riposino in pace.
Francesca Paci: " La ricetta delle democrazie per sconfiggere i jihadisti"
Intervista con Bernard-Henri Lévy
Francesca Paci Bertrand-Henri Lévy
Tre sfide: battere Isis, braccare i terroristi, preservare le libertà.
Siamo cambiati, ammette Bernard-Henri Lévy. L’imprevista dilatazione del secolo breve, il rinvio a oltranza della fine della Storia, il terrorismo, la rinascita di muri e identità ostili hanno fatto invecchiare presto le speranze di quanti come lui, la quintessenza del filosofo engagé, avevano sperato che l’Europa prima e poi l’evitabile mattanza balcanica mettessero un punto alla dialettica tra pace e guerra. Brillante, eclettico, sempre a fianco dei diritti negati, famoso e consapevole di esserlo fino a destare parecchie antipatie in Francia, BHL parla con La Stampa delle paure, le sfide, le illusioni perdute e quelle ancora in piedi a 15 anni dall’11 settembre 2001. A che punto siamo oggi? «Allo stesso. In peggio. Il terrorismo ha guadagnato terreno. E’ entrato nelle nostre vite. Ha modificato i nostri comportamenti. Non è più l’eccezione ma la regola. Ricordo quando gli europei irridevano gli israeliani costretti a vivere con la minaccia fissa del terrorismo. Ora eccoci. C’è un’israelizzazione delle società europee. Avremo però lo stesso sangue freddo degli israeliani? Saremo attenti come loro a non prenderci delle libertà con la libertà? Lo spero». In che modo siamo cambiati? «Siamo in un nuovo mondo. Ricordo quello antico in cui si poteva andare all’aeroporto all’ultimo, beffarsi delle religioni senza rischiare la vita, fare la spesa in un magazzino kasher o celebrare una messa in chiesa. Gli intellettuali parlavano di letteratura e scrivevano romanzi d’amore senza sentirsi disertori rispetto allo scontro principale. I tempi sono cambiati, lo spazio sociale è cambiato». Anche i valori, le idee, le leggi? «Tutto. Siamo i contemporanei di questo nuovo mondo imprevedibile solo 20 anni fa». È un cambiamento definitivo? «Non credo che si tornerà indietro a breve. Il terrorismo, invece, non farà che sperimentare altri modi di essere e inventare altri scenari neri. Dobbiamo essere pronti: i peggiori incubi diverranno reali, le più folli sceneggiature saranno girate davvero dai registi del grande spettacolo terrorismo che in questo senso saranno sempre in anticipo sui loro avversari». Aveva ragione Huntington, siamo allo “scontro delle civiltà”? «Attenzione: non è “il mondo musulmano” a creare problemi ma alcuni elementi finora minoritari di quel mondo. E evitiamo anche false simmetrie: se si cerca una “responsabilità” non va divisa equamente tra la civiltà occidentale e quella parte di mondo musulmano. I fondamentalisti islamici hanno dichiarato guerra al mondo e all’occidente. Gli altri, a partire da Europa e Usa, si difendono. Lo scontro di civiltà era un’idea idiota. Le civiltà non sono blocchi e quella islamica, se esiste, non è omogenea. Ricordiamoci che a Nizza una vittima su tre si riconosceva nell’islam». Stiamo rispondendo correttamente al nuovo terrorismo? «Globalmente si. Si lotta su tre fronti. Lo Stato Islamico in Iraq e in Siria, perchè là c’è il cervello dello jihadismo e il modello di vita in cui s’identificano questi bastardi. La repressione impietosa di chi, in Francia, cade nel terrorismo o ne fa l’apologia. La democrazia: tutte le forze politiche devono unirsi per difendere lo stato di diritto vigilando affinché non sia messo a rischio da esigenze di polizia e guerra». I musulmani d’Europa denunciano un’islamofobia crescente. «L’isteria anti-musulmana c’è e monta in certe fasce della società. Ma ciò non impedisce, ahimè, che la diffusione del burqini sia spiacevole. Non che chiunque lo indossi sia una potenziale terrorista. Ma la regola d’abbigliamento sottesa coincide con l’attuale spinta reazionaria dentro l’islam. Portare il burqini aderisce a una credenza profonda dell’ideologia jihadista: la diseguaglianza tra uomini e donne, l’impurità del corpo femminile, l’obbligo di celarlo». Dopo l’11 settembre i musulmani si chiusero in difesa. Oggi? «Ci sono due fenomeni opposti. C’è una regressione, come prova la storia del burqini. Ma c’e anche una presa di coscienza crescente del fatto che le comunità musulmane non possano più accontentarsi di reclamare un “diritto alla differenza” ma abbiano l’obbligo di sposare il credo repubblicano e, per farlo, di riformare la parte dell’islam che potrebbe porvi ostacolo». Le donne musulmane sono l’avanguardia dell’emancipazione dell’islam o il cavallo di Troia del fondamentalismo? «Entrambe le cose. E’ attraverso loro che il mondo musulmano ha le maggiori chance di riformarsi. Sono loro che muovono le mentalità e tengono in alto il vessillo della rivolta contro chi con il Corano giustifica l’asservimento. Ma per le stesse ragioni le forze più conservatrici si servono più e più di loro per garantirsi il percorso inverso». Cosa hanno in comune i qaedisti dell’11 settembre e l’Isis? «Sono la stessa cosa. Lo stesso odio per la democrazia e l’occidente. Lo stesso antisemitismo furioso. La stessa paura folle e l’odio per le donne. La stessa brama d’impedire l’emergere di una società civile nel mondo arabo e musulmano. Il terrorismo di 15 anni fa negava però lo Stato in quanto tale, mentre la nuova versione combina i due modelli, il non Stato e lo Stato». È colpa delle primavere arabe? «Questo terrorismo è iniziato 10 anni prima delle primavere arabe. È il contrario. Prima del 2011 c’erano due sole opzioni nel mondo arabo e musulmano: dispotismo o l’islamismo. Poi è emersa la terza via. Oggi una parte delle opinioni pubbliche sa che tra l’islamismo e la tirannia c’e la democrazia. Per ora i democratici sono vinti. Ma esistono. E per la prima volta in quella parte del mondo l’islamismo non appare più la sola opposizione possibile ai dittatori». È nel Mediterraneo che l’Europa si gioca l’anima, schiacciata com’è tra islamismo e ultradestra? «E’ una vera battaglia. Sin dall’emergere dell’islamismo radicale in Algeria, le due cose sono collegate. Sul massacro algerino ricordo Jean-Marie Le Pen dire che tra la “jallabya degli islamisti” e i “jeans cosmopoliti” dei cittadini sgozzati sceglieva naturalmente la jallabya». Crede che passeremo dal secolo americano al secolo russo? «La Russia sostiene oggi l’estrema destra nella lotta contro l’Europa e le sue istituzioni. Non fa nulla contro l’Isis, che è il miglior argomento del suo alleato Assad. Perché vinca la Russia però devono vincere l’estrema destra, l’Isis e Assad. Siamo già là? Per fortuna no!».
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