Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/09/2016, a pag. 26, con il ttiolo "Non imbalsamate la memoria degli ebrei", l'analisi di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
Simonetta Della Seta
«C’è un vizio di forma in ogni tradizione, in ogni processo mentale che ha al cuore il tema della “conservazione”. Noi non siamo gli eredi di un museo, non siamo venuti al mondo per spolverare pazientemente degli oggetti esposti, per lustrare delle vetrine e per condurre frotte di visitatori in punta di piedi da un reperto all’altro. Non esistiamo solo e soltanto per conservare: che si tratti di tradizione degli avi o meraviglie della natura, ricordi di infanzia o arredi sacri. Se così fosse, la nostra vita sarebbe soltanto un atto di culto. Il mondo non è un museo. Neanche la natura è un museo. Non lo sono nemmeno le culture: è lecito toccare! È lecito spostare, avvicinare, allontanare, cambiare e imprimere il nostro segno. Toccare la pietra, la vita, toccare il nostro prossimo».
Noemi Di Segni, neopresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane, ha citato queste sagge parole di Amos Oz durante l’inaugurazione della Festa del Libro Ebraico a Ferrara, strappando un applauso a scena aperta al folto pubblico presente nel giardino di Palazzo Roverella che nel 1932, con tragica lungimiranza, l’ebreo ferrarese Federico Zamorani donò al Circolo dei Negozianti pur di non lasciarlo cadere nelle mani del fascio. Il tema del «museo» come luogo fisico ma ancor prima come palestra delle idee è stato al centro della giornata di ieri, fitta di incontri e parole: il Meis, «Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah», è infatti l’anima di questa festa del libro che dà a Ferrara, alla sua storia, ebraica e non, una centralità niente affatto episodica. Qui sorgerà il Museo, qui il Museo già esiste come polo storico e culturale.
La vera ricchezza
Non a caso, il cuore di questa festa, subito dopo la cerimonia di premiazione che ha visto assegnare il riconoscimento annuale «Pardes» («Paradiso» e molto altro, in ebraico) a Riccardo Calimani, Emilio Jona ed Ernesto Ferrero, è stata una tavola rotonda intorno al tema «Una memoria per il futuro: la missione dei Musei Ebraici». Coordinati da Maurizio Molinari, direttore della Stampa, Paul Salmona, direttore del Museo d’Arte e Storia dell’Ebraismo di Parigi, Emile Schrijver, direttore del Museo Ebraico di Amsterdam, Orit Shaham Gover, direttore del Museo della Diaspora di Tel Aviv, Darius Stola, Direttore del Museo di Storia degli Ebrei polacchi di Varsavia (che quest’anno ha avuto il riconoscimento quale migliore museo d’Europa) e Simonetta Della Seta, neodirettore del Meis, hanno riflettuto ad alta voce sullo spazio fisico, la missione, la destinazione di un museo ebraico. Daniele Ravenna, consigliere del ministro Franceschini, ha spiegato che cosa significa per il Mibact aver concepito e finanziato l’impresa di un museo dell’ebraismo italiano. Dario Disegni, presidente del Meis, ha fatto gli onori di casa.
Se è vero che nelle parole di tutti c’è in fondo un pieno consenso all’idea di Amos Oz di un presente vivo che riconosce il passato ma non lo «imbalsama», lo è altrettanto l’evidenza che nel racconto di ognuno di loro si è svelata una realtà culturale e storica diversa, con la sua irriducibile specificità, che è la vera ricchezza, il più autentico sale della vita. Musei collocati in antichi edifici nel cuore della capitale, come nel caso di Parigi. Musei costruiti dal nulla e concepiti come un’esperienza di scoperta, dove tutto sta dentro e il fuori sembra chiedere discrezione, come nel nuovo museo di Varsavia. Musei che fisicamente non ci sono ancora eppure si raccontano attraverso un ricco tessuto simbolico, come a Ferrara. Qui i cinque edifici che completeranno lo spazio museale saranno lo specchio architettonico dei cinque libri della Torah, ma qui tutto poggia, fisicamente e concettualmente, sulla sede da tempo dismessa delle antiche prigioni di Ferrara.
Per costruire il presente
E davvero la dinamica tra esclusione e inclusione, tra chiusura e incontro è al cuore di quell’idea di museo ebraico sulla quale si sono interrogati i direttori, ciascuno a suo modo. Come intendere lo spazio museale? Come un luogo fisso di conservazione della memoria o piuttosto come una pagina da scoprire, in cui riconoscere la propria storia anche se non si è parte del popolo d’Israele? Tutti questi musei hanno una esposizione permanente e diversi spazi per mostre temporanee, attività educative, libri. Alcuni, come Parigi, vantano una ricca collezione di reperti. Ma i reperti non parlano mai da soli: ci vuole cimento, ci vogliono idee. Altri sono nati come musei «didattici», dove le parole e la multimedialità sono la vera ricchezza. Il Meis, nella persona del suo direttore e del suo staff, sta riflettendo su quali vie percorrere per raccontare la storia dell’ebraismo italiano, unica come ogni storia ma forse un poco di più, nella sua ininterrotta continuità, nella sua costantemente minima demografia, in quella esperienza di integrazione che in fondo non è mai stata tradita del tutto, sino al buco nero delle leggi razziali e della Shoah.
Proprio per questo, grazie alla sostanza viva della passione che ogni direttore ha messo nelle proprie parole raccontando il proprio museo, il dibattito è stata un’esperienza avvincente per tutti. Perché al di là della questione «museale», di come costruire e guidare una istituzione dedicata alla storia di un piccolo popolo disperso ai quattro angoli del mondo, l’incontro di Ferrara ha chiamato in causa il nostro rapporto con il passato e con il nostro futuro, la nostra capacità di costruire il presente.
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