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La Stampa Rassegna Stampa
04.09.2016 Giovani calciatori arabi crescono e da adulti le buone intenzioni svaniscono
Il Roma Club di Gerusalemme, nelle cronaca di Massimiliano Nerozzi

Testata: La Stampa
Data: 04 settembre 2016
Pagina: 33
Autore: Massimiliano Nerozzi
Titolo: «Dove la religione non fa differenza, ebrei e arabi a scuola di calcio»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/09/2016, a pag.33, con il titolo "Dove la religione non fa differenza, ebrei e arabi a scuola di calcio", la cronaca di Massimiliano Nerozzi.

Titolo e testo sono ispirati a nobili sentimenti, peccato che la realtà non li confermi quando lo sport diventa una passione adulta. I recenti giochi olimpici del Brasile lo confermano. I giovani atleti arabo-musulmani, una volta diventati grandi, si comportano con gli atleti israeliani secondo le regole di sempre del razzismo islamico.

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Massimiliano Nerozzi

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Primo comandamento: «Ci sono solo squadre miste, con ebrei, arabi, drusi, cristiani, di qualsiasi nazionalità». Secondo: «Niente parolacce, perché la violenza verbale porta a quella fisica». C’è davvero una Terra Promessa, per i bambini che vogliono cominciare a giocare a pallone, e l’hanno aperta gli italiani del Roma Club Gerusalemme, come racconta Samuele Giannetti, segretario e vice-presidente. «Abbiamo iniziato sette anni fa, con sette bambini e un allenatore arabo, del Nord di Israele. Quest’anno dovremmo arrivare a 150 iscritti, tra i 5 e i 15 anni, con le prime due squadre di bambine». Le vie del pallone (e dell’integrazione) sono infinite. Se la maggior parte dei club dilettanti in Israele hanno tutti giocatori arabo-israeliani o tutti ebrei, al Roma Club ci sono squadre miste, come fosse la ragione aziendale. Una scommessa vinta L’ultima sfida è quella delle squadrette femminili: «Fino ai 10-11 anni è meno problematico avvicinare al calcio le bambine arabo-israeliane - racconta ancora Giannetti - ma quando crescono, sì. Dipende anche dalla famiglia». Non si perse d’animo all’inizio, figurarsi ora: «Non mi piacciono le cose facili». I più piccoli cominciano con il calcio a 5, poi calciotto, e finalmente a 11. La municipalità di Gerusalemme organizza un campionato, «noi due tornei, grazie alla Kinder+Sport». Però, «c’è anche un codice di comportamento: se non vai bene a scuola, noi non ti portiamo in giro a giocare». Il primo allenatore parlava arabo, ebraico e italiano, «faceva allenamenti in tre lingue», sorride Giannetti, ora ci sono quattro tecnici israeliani e due arabi. «E bambini israeliani, arabi, etiopi, drusi, somali: chi parla ebraico, chi arabo, qualche parola di inglese. Ma soprattutto si comunica con la lingua del pallone». Qui la retorica s’è fatta pratica. Meglio degli adulti, se alcune squadre e tifoserie, sono ancora spaccate: come il Beitar Gerusalemme, «di estrema destra», e l’Hapoel Tel Aviv, «di sinistra». Quando il Beitar acquistò il primo giocatore non ebreo della sua storia, Kadiev, ceceno di religione musulmana, gli ultrà issarono uno striscione: «Non ci rappresenti». Non è un bel clima. «Il problema sono gli adulti», commenta Giannetti, perché va così anche attorno alle partitelle dei bimbi. «Anche se episodi di violenza non ce ne sono mai stati. E noi, con tutti i genitori, facciamo degli incontri, proprio per questo». Hemed e Beran, gli esempi L’esperienza del Roma Club Gerusalemme pare una contaminazione, in una città dove le altre realtà amatoriali sono divise: «Due-tre squadre di ragazzi arabi, altre tutte di israeliani, pochissime miste. Forse non c’è la volontà: ma a livello nazionale è diverso». Non senza problemi: «Ogni tanto, a Gerusalemme ci sono state ritorsioni da parte dei tifosi». In nazionale c’è un bello spot, con i due che fanno coppia anche nel Brighton, nella Championship inglese: Keyan Beran, arabo-israeliano, e Tomer Hemed, ebreo. Un anno di differenza, ma per il resto il destino ne ha annodato il cammino: nati nello stesso giorno, 2 maggio, nei dintorni di Haifa, sono cresciuti nel settore giovanile del locale Maccabi, prima dell’avventura in Europa. Gli idoli di casa, se domani sera l’Italia li sfiderà dentro al nuovo Sammy Ofer Stadium di Haifa, Nord di Israele. Keyan Beran, che ha chiamato il figlio Pirlo dopo un Celtic-Milan in cui sfidò il regista, legge lo stesso passo del Corano prima di ogni partita. Tomer Hemed va in sinagoga ogni venerdì sera. L’uno di fronte all’altro, in un manifesto inglese, sono diventati simbolo di integrazione. La stessa cui lavora Giannetti, che porterà una ventina di bambini, misti ovviamente, a vedere la sfida dell’Italia: «I genitori vengono al campo e vedono che il loro bambino si diverte, e non importa se il compagno è ebreo, arabo, bianco o nero».

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