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La Stampa Rassegna Stampa
03.09.2016 Come nasce un nuovo emirato terrorista
Analisi di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 03 settembre 2016
Pagina: 1
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Tra i cecchini nel regno di Al Nusra»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/09/2016, a pag. 1/10, con il titolo " Tra i cecchini nel regno di Al Nusra" il reportage di Domenico Quirico.

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Abu al Joulani, capo di al Nusra       Domenico Quirico

Presentimenti spirano indietro. Ho uggia, infine, di questa guerra siriana, una ansietà che si prolunga troppo ormai, dinanzi agli occhi da cinque anni non ho che un seguito di urti e massacri, una musica infernale fino al sacrificio inevitabile. Ho guardato le carte delle zone controllate dagli innumerevoli contendenti. L’esercito, Hezbollah, i jihadisti buoni come diciamo noi in Occidente e quelli cattivissimi, il Califfato di Raqqa, adesso anche i russi e gli iraniani. Mi sembra che la guerra si sia calcificata, ossa deformi ma ormai solide, come i pini di Homs che ti accolgono piegati da un vento perenne, sciancati dal loro duro lavoro quotidiano di diga. Sì, la Siria è sepolta in un immenso campo di battaglia, impigliata tutta intera nell’obitorio della guerra. Se vieni qui vai a sfregare di continuo la vita contro la morte come un acciarino. Questo forse è il senso: se la morte e il dolore non fossero nel cuore della vita un durissimo nocciolo, la vita sarebbe un frutto troppo molle e maturo. Mortai e cannonate Ma oggi queste cannonate, questi mortai, questi quartieri e terreni incolti del fronte Nord-Ovest, a Idlib, che si ingramagliano di fumo e di polvere mi irritano, il loro rumore è fisicamente doloroso, mi battono il passo mentre avanzo verso la città maledetta. Da quattro anni fa parte dell’emirato di Al Nusra: no, ora Al Qaeda si fa chiamare Fateh al Cham. Ancora mimetismi, trucchi semantici: per attrarre altri gruppi islamisti minori, Ajnad al Cham, Liwa al Haqq, piccoli ma feroci, e continuare a ingannare un Occidente che sogna sempre un Islam educato e meno assassino. Uccidono, mettono autobombe, torturano e rubano come Daesh: ma, ipocritamente. Non usano la videocamera, non proclamano ipotetiche avanzate verso Roma. Lo scopo è identico: Califfato e totalitarismo di Dio che hanno messo in pratica nella provincia di Idlib e nelle zone di Aleppo che controllano. È grande l’emirato con la sua sharia: la spina dorsale va dal confine turco, dove passano i rifornimenti pagati dall’Arabia Saudita, ai monti di Latakia e di Idlib, taglia l’autostrada che porta ad Aleppo, e più giù, appunto, fino a Al Uar, centomila abitanti proprio a fianco di Homs. Idlib è al centro, novanta per cento della città è di al Nusra, un dieci per cento alza le bandiere di Daesh: tutto nasce e porta lì in questo macchia tenebrosa sulla mappa della terra che trabocca di ogni forma di crudeltà. Lo tengono i combattenti siriani e stranieri della ghenga terrorista. Almeno quarantamila, molti di più di quelli di Raqqa. Questa è la premessa della guerra di domani, il terrorismo che seguirà alla caduta (forse) del califfato. Ho un presentimento stupido in questa mattina che si beve con abbandono il sole incandescente e inondante; la luce ci stringe come una insidia tenace, tutto il giorno si è svegliato davvero minaccioso a guardia del paese morto. Lontananze. Vivo in lontananze. Rovine bizantine ovunque, fortezze abbattute, frontiere divelte, secoli fa. Guerra. Guerre. Sempre. Lasciamo lo stretto corridoio che porta ad Aleppo, pochi chilometri e pieghiamo ad Ovest verso i villaggi sciiti di Nobbel e Zaara che l’esercito ha riconquistato. Adesso il fuoristrada corre follemente sulla via che costeggia una grande fabbrica, criniere di fiamme dalle ciminiere. Di corsa sulla strada Gelo improvviso, cuore che smaglia. Mi verrebbe voglia di gridargli, all’autista: rallenta! Perché corri così a perdifiato? Non è la morte questo cigolio di mortai che scoppia alla nostra destra, per quanti ne piovano, per ragioni di traiettoria, non possono che cadere tra gli sterpeti incolti. Idlib è lì che ci attende con i suoi ostaggi (o sudditi fedeli) dell’emirato. Non fuggirà. La prima volta che la vidi, quattro anni fa tutto era diverso, era inverno: vi era un oceano di nebbia nel quale nuotavano distese piatte dai fantasmi di alberi e di case, che faceva oscillare il mondo nel quale si andava annegati. L’umidità fosca cambiava il freddo in una cosa e ci applicava addosso brividi. La Siria è un luogo di strani commerci, di patti che sembrano impossibili. Nelle pause tra le battaglie furibonde regime ed emirato si scambiano accordi: ad al Uar per esempio gli studenti escono dalla fortezza assediata per sostenere gli esami a Homs, il governo manda i bus per i trasporti giornalieri. Ma qui non è giorno di accordi, è battaglia e dura. Aerei russi ringhiosi come bulldog sfrecciano dalla base di Palmira. Una battaglia urbana è un complesso rompicapo di uomini che combattono, di civili indifesi e terrorizzati, di rumori, odore, colore, paura, conversazioni troncate a metà e esplosioni ad alto potenziale. Passiamo le postazioni dei soldati governativi, oscuri sciami di umanità, antri di oscurità e di tanfo, odori di cose vive, giacigli a cui hanno appeso, gli entusiasti, gli ossessivi ritratti della dinastia Assad. Facce arrossate o pallide, sfigurate dal sudore, arruffate da barbe incolte e incrostate da cappelli bradi. Alcuni si stiracchiano, vomitando sbadigli, mentre raccolgono fucili e bandoliere. Una radiolina rovescia la voce flautata di Nasif Zeitun, la star della canzone siriana: amori infranti ma anche la voglia di pace e di finire la guerra… L’unico elegante e pulito in camicia bianca è un borghese, disarmato, usa un telefono color avorio dell’epoca sovietica, posato assurdamente, lì all’aperto su un tavolino da ufficio. Escono voci concitate, urla, sono le indicazioni e gli allarmi sulla attività dei cecchini di Al Nusra. «Si muore una volta sola» C’è un soldato che ha tutti i capelli bianchi e l’elmetto lo ha ricavato da un casco da operaio coprendolo con la tela mimetica. Hanno preso anche lui a fare il soldato: scarseggiano gli uomini nell’esercito. «Non ti piace? Mi chiede il vecchio indicando le cannonate». «No». «Non è nulla, non è nulla passerà. E comunque si muore una volta sola...». Hanno facce, i soldati qui, di una serietà triste e attonita, si vede che è gente sottratta a sconcianti fatiche di uomo per fare la guerra che non è cosa loro. Un senso oscuro di necessità viene dalle cose in Siria ed essi, come gli altri che gli stanno di fronte, i fanatici, non lo discutono: è quello che gli ha dato una uniforme e un fucile. Forse si sentono arnesi buoni e pronti all’uso dietro a una volontà che è inesorabilmente fuori di loro. A noi spetta la domanda: che sarà in tempo di pace, se mai la pace arriverà, di questa fredda abitudine all’omicidio, che sarà di questi uomini a cui, dalle due parti, si è insegnato ad essere uccisori tranquilli? La guerra non rende un uomo migliore o peggiore, lavora come carta vetrata, gratta via il superfluo, mette a nudo il nocciolo, rivela la vera essenza. La Siria mi uccide, ti uccide anche così. Non dimentico che ho conosciuto, e bene, gli altri, gli uomini di Al Nusra. Nulla li rende diversi dai seguaci del Califfato: la tortura, i mezzi diretti di disintegrazione, più ancora l’avvilimento dell’uomo, l’amalgama con il criminale cinico, la complicità forzata. Chi uccide o tortura in nome di dio non conosce che una unica ombra alla propria vittoria, non può sentirsi innocente. Deve dunque creare la colpevolezza della vittima stessa. Quando il concetto di innocenza scompare la potenza eretta a valore, il fanatismo puro, regnano definitivamente su un mondo disperato. Ricordo un emiro, piissimo, di Al Nusra. Predicava: «Un uomo lo puoi colpire senza timore, l’uomo è moscio come un pastone. Non pensare al come e al perché. Tu sei puro e devi colpire senza ragionare. Spaccare un nemico di dio è una cosa santa. Per ogni nemico ucciso dio ti perdona un peccato, come per una serpe eliminata. L’eretico, l’infedele devi ammazzarlo senza pensarci su. Sono marciume. Sono sporchi, appestano la terra, vengono su come una specie di fungo velenoso…». Adesso bisogna scendere dal pick up, c’è un angolo morto che ci protegge, qui, bastioni di utile terra e di pietra ruzzolata e accatastata in disordine. Ma la prima linea è laggiù e ci divide una decina di metri di passaggio scoperto. «Bisogna correre e correre svelti», mi spiega uno dei soldati, giovane questo, una spavalda faccia da scomunicato. In una trincea, in un bunker sei in una tomba, tremi come un montone. Ad andare così, all’aperto, invece senti le tue braccia, le tue gambe, anche morire è una cosa più libera. Adesso la paura sale dalla terra contaminata, riempie i nostri corpi, si insinua come un verme nello stomaco. Tutto diventa freddo anche se il sole cuoce. Finita la guerra come si farà a bonificare il suolo da questa paura che incombe sui campi e le città come una nebbia? Sto per avviarmi. So che non ci sono molte alternative: devi sperare che il cecchino sia distratto, che la sua arma si inceppi, che la polvere gli offuschi la visuale. Altrimenti non hai scampo. Non sono un uomo per lui, sono un pupazzo, un bersaglio mobile, una cosa vuota di anima. Il mio urlo se mi colpirà sarà per lui impersonale come il vento nelle feritoie della sua tana. Il soldato giovane mi fa segno, inginocchiandosi, un gruppo di case rossicce: il cecchino è lì, «ne ha già sciancati e accoppati molti dei nostri. Ma qua non riusciamo a costruire una barriera di protezione…». «Vado io per primo» Allora: si prende fiato un momento, tutta la vita passa in un rimpianto di un attimo, un presentimento si affaccia ed è respinto con terrore, ed ecco ci si tuffa nel rischio. «Lascia vado io per primo, ho pratica, tu corrimi subito dietro, vicino, in due non ci può prendere…». Scatta via, e io dietro con tutte le mie forze, un metro, due metri dai, è passata. Invece apre le braccia, si gira su se stesso e cade davanti a me, in mezzo alla via. Cade con morbidezza e indifferenza come si cade quando si è colpiti. Cade ormai fuori dal varco assassino. Lo sguardo si annega nell’occhio, il sangue comincia a distenderglisi attorno sull’asfalto e io istintivamente scosto le scarpe per non calpestare quel sangue. Lo portano via su un fuoristrada guizzando, gettano terra sul sangue per coprire la macchia scura. Ancora il cannone. Battito di motore. Sono le dieci e mezza. Sollievo. I compagni del morto si tengono saldati l’un all’altro. Risa di gioia per esser passati. Vivi. Da qui l’ingresso della zona nemica è a un passo. Un gruppetto di donne vestite di nero cammina in mezzo alla strada indifferente agli scoppi delle bombe, trascinano con la pena di formiche verso la città sacchi di plastica nera ammucchiati attorno a un camion. Una si aiuta deponendoli su un passeggino per bambini. È farina, la portano al forno che è accanto. Scavalchiamo con un largo giro la prima linea, entriamo in una città morta. Qui non ci vive più nessuno perché non è rimasto nulla in cui vivere. Immense cattedrali di cemento e di ferro disfatto, muraglie di lastroni, cave spalancate, rinchiuse in un freddo rancore di morte, intrusi siamo in questa nudità di catastrofe dove le macerie costruiscono straordinarie geografie di luce e di ombra. Ogni tanto fragori di seracchi scuotono le strade. Sono fiancate e pareti che precipitano in nubi di polvere che sembrano neve sporca. Ma qui regna una straordinaria orchestra di rumori. Il vento si insinua nelle rovine e produce musica: sibili rulli di tamburo crepiti fischi rombi ululi sussurri che paiono umani o di bestie inseguite. La città distrutta vive in un rumore eterno e ti parla il suo dolore. Il raschiare infinito delle serrande divelte e sforacchiate dei negozi ha toni da flauto, paiono voci che invocano aiuto. Ti volti, azzannato dall’angoscia, cerchi uomini che non ci sono più. Dove è ora questa gente? Come si chiamavano queste strade un tempo zeppe di vita? Chi ricostruirà tutto questo e chi verrà un giorno ad abitarlo ancora? Il sorriso di Putin Il Generale, l’uomo dei servizi di sicurezza dell’esercito, mi ha detto: «Che ci importa di Raqqa? Non conta nulla. La Siria sono le grandi città dell’ovest. I curdi non la potranno prendere o tenere. Le tribù di laggiù li odiano e per questo si sono date al Daesh. La battaglia chiave è Aleppo. Ma la battaglia finale sarà Idlib e per questo la guerra sarà ancora lunga…». A Damasco, di nuovo, vicino alla porta di Tommaso mi aspetta il Professore. Il caffè si chiama «Le voci del vento». Lui ha studiato in Unione Sovietica al tempo del padre di Bashar, è soddisfatto: i russi sono dappertutto, comprano case a Latakia e a Tartus, ma arriveranno presto anche a Damasco, assorbono la nostra produzione agricola, l’economia è in ripresa, commercianti che erano scappati ritornano… Si formano le prime coppie miste, sbocciano amori... la vita che riprende…adesso faremo imparare il russo ai ragazzi come un tempo… saranno loro che faranno finire questa guerra empia». Penso ai piccoli bus stracarichi di gente e di cose che ho visto sfrecciare sulla strada verso Nord: ai finestrini oltre ai ritratti degli Assad, hanno aggiunto il sorriso di Putin, il signore della guerra. L’acqua scorre nella fontana del caffè, vecchio come questa città paziente, da antichi becchi di bronzo dorato; passano ragazze e donne vestite di chiari colori, che hanno occhi molto belli, assai lucidi quasi per il velo di una tersissima lacrima. Il Professore è davvero allegro oggi: «La Siria è un paese fortunato. Voi avete una vita così banale, quante volte hai una ragione di essere felice in un giorno tu? Una, due? Pensa invece alla Siria: oggi c’è la elettricità e siamo felici, usciamo di casa e rientriamo senza essere uccisi: siamo felici. Arriva l’acqua, che felicità. I figli soldati vanno in azione e tornano vivi, siamo felici».

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