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La Repubblica Rassegna Stampa
03.09.2016 Elisabeth Badinter interviene sull'islam in Francia
La intervista Anais Ginori

Testata: La Repubblica
Data: 03 settembre 2016
Pagina: 47
Autore: Anais Ginori
Titolo: «Badinter: la Francia rischia una secessione islamica»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 03/09/2016, a pag.47, con il titolo "Badinter: la Francia rischia una secessione islamica", l'intervista di Anais Ginori a Elisabeth Badinter, estremamente interessante. Badinter, dopo una vita dedicata ai diritti delle donne, continua con lo stesso coraggio a intervenire sui temi attuali, che vedono invece il silenzio di quello che un tempo fu il movimento femminista. Particolarmente coraggiosa, interviene con chiarezza sull'islam, e quindi sull'intero futuro della Francia. Donna, ebrea, socialista, sono tutte caratteristiche che rendono rare le interviste  a un personaggio che non ha peli sulla lingua. Bene ha fatto Anais Ginoiri a intervistarla.

Ecco l'intervista:

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Anais Ginori      Elisabeth Badinter

Parigi- «Dicano pure che sono islamofoba: non m’importa. Non possiamo rinunciare alla critica di alcune derive dell’Islam solo perché c’è il rischio di stigmatizzare i musulmani ». Elisabeth Badinter ha appena finito un libro su cui lavora da anni dedicato a Maria Teresa d’Austria, sovrana di un impero con sedici figli, antesignana della sfida molto femminile della conciliazione tra pubblico e privato. La filosofa francese che ama passare le giornate negli archivi non rinuncia mai a intervenire nel dibattito intellettuale, soprattutto se in ballo ci sono la laicità e il femminismo, com’è accaduto quest’estate con le polemiche sui divieti del burkini. «Certo, non è un indumento che mi piace, dev’essere anche scomodo», premette Badinter nel suo appartamento parigino affacciato sui giardini del Luxembourg. Le foto dei poliziotti di Nizza che costringono una donna in spiaggia a togliersi il burkini hanno fatto il giro del mondo. Anche lei è rimasta scioccata? «Sono per la libertà di indossare ciò che si vuole, mi sembra un principio minimo ed essenziale, anche se la legge fissa alcuni paletti: non si può passeggiare nudi e neppure a volto coperto. È pur vero che mettersi un burkini può diventare una provocazione, soprattutto dopo un attentato come quello che ha vissuto Nizza». Più che un abito, il burkini rappresenta ormai anche un messaggio politico? «È chiaramente un’uniforme politico-religiosa. Alcune donne forse lo indossano seguendo convinzioni di virtù e purezza, ma diventano strumento di una cultura che vuole sottometterle. Resto comunque dell’idea che sia sbagliato varare dei divieti specifici. Esiste già il bando di indumenti religiosi in alcuni luoghi istituzionali come scuole, uffici pubblici. È quello che prevede la nostra legge sulla laicità approvata nel 1905 che vieta l’ostentazione dei simboli religiosi ma garantisce anche la libertà di culto». Una legge che oggi molti vorrebbero cambiare. «La legge del 1905 ha permesso di secolarizzare la nostra società. All’epoca era stata adottata per i cattolici e ha funzionato. È uno dei fondamenti della nostra République. Dobbiamo vigilare ancora di più in questo momento. La Francia si trova in una situazione eccezionale, unica in Europa. Nessun altro paese ha vissuto l’orrore a ripetizione, con diversi attentati in successione nell’arco di un anno e mezzo. La reazione e il sentimento dei francesi stanno cominciando a cambiare. L’islamofobia sta montando, insieme al rischio che ci siano gesti estremi contro la comunità musulmana». Per Michel Houellebecq è in corso un prepotente ritorno della religione in Occidente, e la laicità è superata. È d’accordo? «Forse Houellebecq ha ragione quando parla di un ritorno della religione nelle nostre società. Non sono invece d’accordo sul fatto che il principio della laicità, dei Lumi, sia ormai desueto. Anzi: la laicità sarà la nostra arma per lottare non contro la religione, ma contro il fanatismo». Perché molti dibattiti sull’Islam alla fine ruotano intorno alla donna e al suo corpo? «Su questo tema la miglior riflessione l’ha fatta Kamel Daoud, che pure è stato travolto dalle critiche. Comunque il fanatismo islamico non offre un’immagine maschile migliore: le donne devono coprirsi perché gli uomini sarebbero delle bestie incapaci di poter controllare i loro istinti sessuali». Per un intellettuale è difficile criticare l’islamismo, senza essere accusati di islamofobia? «Questo genere di critica è un perverso ribaltamento dell’antirazzismo, usato per impedire agli altri di esprimere le proprie idee. È l’errore che fa oggi una certa sinistra. Bisogna saper distinguere: sono contro l’islamismo, e difendo l’Islam. Per troppi anni c’è stato chi ha voluto tacere l’ascesa dei salafiti nelle banlieue perché non bisognava mettere in difficoltà la comunità musulmana. Una scelta di quieto vivere che ha dato i risultati che vediamo oggi. In alcuni quartieri le giovani francesi non possono uscire di casa senza il velo, devono chiedere il permesso ai fratelli per muoversi, l’aborto è impossibile. Provate ad andare a Sevran (periferia di Parigi, ndr) per vedere come l’80% delle donne indossi il velo. Sono territori perduti della République. In alcuni quartieri c’è un separatismo con la società francese, direi quasi una secessione». Una definizione forte. È così pessimista? «Penso che possiamo ancora riconquistare questi territori. Non è una situazione definitiva. La mia speranza viene dalle donne. Sono in contatto con molte associazioni femminili che lavorano nelle banlieue. Ci sono sempre più ragazze che rifiutano di indossare il velo, che sfidano la cultura religiosa dominante. Hanno molto coraggio. Alcune scrivono libri, vanno in televisione. Ma sarà un ciclo lungo. Potrebbe durare anche una generazione». È il segnale che l’integrazione sociale ed economica ha fallito? «I primi algerini, marocchini, tunisini, che sono arrivati a partire dagli anni Sessanta non sono stati accolti bene. Eppure per almeno trent’anni non abbiamo mai avuto problemi di convivenza. Ricordo alcune signore tunisine che si coprivano i capelli con un foulard. Certo a noi pareva strano, ma sembrava più che altro una tradizione lontana. Adesso è diverso. Il burkini ci appare come una provocazione, un esplicito rifiuto della nostra società. La cesura è sempre più profonda e rapida. Ricordiamoci cosa abbiamo pensato quando abbiamo visto in televisione le donne afgane con il burqa. Era quindici anni fa. Era un’immagine allucinante ma lontana nel tempo e nello spazio. Mai avremmo pensato di doverne discutere qui, in Francia, in Europa».

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