Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 31/08/2016, a pag.39, con il titolo "Aspetto di tornare in carcere, non lascierò mai il mio Iran" l' articolo di Arianna Finos, la storia del regista iraniano Keywan Karimi.
Keywan Karimi, regsita iraniano, curdo, torturato, non sottomesso
Mogherini & Zarif se la ridono, Allah li fa e poi li accoppia
Ci chiediamo se il regista iraniano Keywan Karimi, condannato alla galera e a 223 frustate non meriti qualcosa in più della semplice proiezione del suo film alla Mostra di Venezia. Non ci vorrebbe poi un grande coraggio - siamo a Venezia, non a Teheran, i responsabili della Mostra non rischierebbero nemmeno un buffettino sulla guancia - a redigere e diffondere in tutto il mondo un appello per aiutare il regista iraniano. Il quale crede, povero ingenuo, che le democrazie occidentali siano il paradiso mentre lui vive in un inferno. E' già tanto che proiettino il suo film, verranno dette le solite parole, ma fatti nessuno. In più è anche kurdo, con tutto quello che significa.
Ci viene in mente Federica Mogherini, i suoi sorrisi radiosi, mentre a Vienna firmava la fine delle sanzioni alla repubblica dei mullah. Come rideva, la sciagurata, guardando l'altrettanto sorridente ministro degli esteri iraniano. Ma quest'ultimo, almeno, un motivo l'aveva, aveva appena messo nel sacco le democrazie suicide dell'Occidente.
Arianna Finos
Un plauso a Arianna Finos, mentre tutti i media dedicano totale attenzione agli aspetti cultural-mondani della Mostra, sceglie un argomento scomodo. E' la sola.
Ecco l'articolo:
Nel 2013 il regista iraniano Keywan Karimi ha scontato quindici giorni d’isolamento in carcere per propaganda contro il regime e “offese al sacro” perché aveva girato il documentario sui graffiti a Teheran, Writing on the city, mostrando anche scritte di protesta. Nell’ottobre del 2015 è stato condannato a sei anni di prigione e 223 frustate. Nel febbraio dell’anno scorso il giudice d’appello ha ridotto gli anni (a uno) ma non le frustate. Il cineasta, oggi trentenne, vive in un’eterna attesa. «Non so cosa mi succederà domani, non posso fare progetti», racconta Karimi dalla sua casa a Teheran, «aspetto che il giudice mi chiami per andare in prigione. Realizzare il mio nuovo film sotto una tale pressione è stato arduo». Lavorare lo ha aiutato a non andare in pezzi, il sostegno ricevuto dai cineasti di tutto il mondo ha interrotto la sua solitudine e lo ha commosso: non si ritiene un attivista politico, ma un artista. Drum sarà presentato alla Settimana della Critica a Venezia. «Accompagnare il film al festival sarebbe stato un segnale importante. Non so cosa quali reazioni ci saranno nel mio paese, ma voglio essere ottimista: non ho mai fatto nulla d’illegale, anche se in molti pensano che abbia commesso un crimine facendo il mio mestiere». Il film racconta di un avvocato che vive e lavora in una Teheran senza tempo. In un giorno di pioggia un uomo gli consegna un pacco, che si rivela importante per uomini potenti e misteriosi. La sua abitazione viene perquisita, l’uomo minacciato e con lui la fidanzata e il suo miglior amico. Colpito negli affetti più cari, l’avvocato metterà in atto una crudele vendetta. «I miei personaggi reagiscono alle ingiustizie. Per certi aspetti la morte degli uomini di potere rappresenta la vendetta di una classe sociale schiacciata dalle condizioni in cui è costretta a vivere». La storia, il cui spunto nasce dalla cronaca, è liberamente ispirata al romanzo omonimo di Alimorad Fadaienia: «Lo scrisse oltre 40 anni fa, ma oggi è più attuale che mai. Gli anni Sessanta sono stati un periodo strano per l’Iran: i profitti del petrolio sono aumentati, lo sviluppo economico è stato funzionale ai sogni dello Scià e della sua classe dirigente. Sogni di una vita migliore, accompagnati però da un crescente senso di superiorità: ci sono stati intellettuali e artisti pagati dal governo per fare propaganda, altri che si sono schierati contro, a volte imprigionati e torturati. E poi terza categoria di autori, le cui opere oggi vengono riscoperte, e che parlano di una realtà più amara». La Teheran che Karimi inquadra in bianco e nero è senza tempo, svuotata, distrutta. Scarni i dialoghi, molti i rumori della metropoli, le voci in lontananza. «Teheran è diventata capitale nel 1600, due secoli dopo la modernizzazione ha distrutto i vecchi edifici e l’avidità ha creato una città brutta e deforme: Drum è una metafora della distruzione di Teheran. L’avidità ha abbattuto edifici, valori, ambiente. Una città di bugie e trappole, dall’architettura casuale, sotterranea ». Karimi ha progettato il film per due anni, subito dopo il carcere. «Pensavo ossessivamente alla storia, avevo fissato nella mente ogni dettaglio della sceneggiatura ». Ha girato in primavera, quando la città (17 milioni di abitanti), è deserta. «In genere i registi iraniani girano nelle zone ricche, io ho scelto quelle povere: da Bazar a Shahre Rey». Keywan Karimi non ha pensato mai di abbandonare il suo paese: «Amo l’Iran, se quelli come me se ne vanno, chi resterà a ricostruirlo? Credo di dover rimanere nella mia terra malgrado i suoi problemi, e lavorare per migliorare le condizioni di tutti». A proposito delle sue origini, il regista racconta: «Quando nasci curdo in Medio Oriente, sai che devi essere forte. La parola curdo nei media ha un significato politico, per me è un’esperienza che porto nei film che faccio. I miei personaggi possono non parlare curdo o vivere in terre curde, ma lo sono nel profondo delle loro vite. Essere curdo è un modo di vivere, niente di più. Una sorta di resistenza...». Prima di diventare un cineasta Karimi ha studiato sociologia e filosofia: «A 15 anni ho cominciato a pubblicare racconti. Poi sono andato all’università e ho iniziato a girare. Sono un autodidatta, ho imparato e corretto gli errori film dopo film». Definisce Asghar Farhadi — oggi il regista più premiato del Paese (Oscar per Una separazione) — «il risultato del liberalismo e dell’ascesa della borghesia in Iran», mentre lo scomparso Kiarostami «ha avuto grande influenza sui nostri registi, restituendo un’atmosfera esotica e speciale del nostro paese». Quando gli si chiede se è in contatto con il collega Jafar Panahi, anch’egli condannato dal regime, Karimi risponde: «In nessun modo, non ho contatti con nessuno del cinema iraniano. Sono solo».
Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/ 49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante