IC7 - Il commento di Giacomo Kahn
Dal 31 luglio al 6 agosto 2016
Guerra al terrorismo: modello Israele
Crescono in tutta Europa le misure di prevenzione per cercare di arginare la minaccia del terrorismo islamico. Più controlli, più attività di intelligence, più uomini a presidio dei potenziali obiettivi. Cresce in Italia il numero delle espulsioni ed è stato annunciato che saranno presidiati e controllati non solo i grandi luoghi di incontro come monumenti e piazze, ma anche i cosiddetti soft target, come ad esempio i maggiori centri commerciali. Si tratta per il nostro Paese di un ingente impegno di risorse e di mezzi e c’è da chiedersi non solo quanto durerà, ma soprattutto se saremo in grado di reggere questo meccanismo di sicurezza, sia in termini economici sia psicologici e di qualità della vita.
Ma soprattutto viene da domandarsi: e se nonostante tutte le azioni messe in campo dovesse verificarsi, e nessuno se lo augura, un terribile attentato in una nostra città, come reagirebbero gli italiani? Come reagirebbe il mondo politico? Assisteremmo ancora a quel dibattito surreale, svoltosi negli scorsi giorni, sulle origini, sulle ragioni, sugli scopi politici o religiosi che perseguono le azioni violente firmate Isis? Ascolteremo ancora le parole minimizzanti di chi nega che sia in corso una guerra di religione che una parte del mondo islamico ha dichiarato, sulla base dei versetti del Corano, ad ebrei e alla cristianità, quindi a gran parte dell’Occidente? Assisteremo ancora alle paradossali analisi di chi, cercando mille altre fuorvianti ragioni, continua a negare che il fanatismo islamico origina dalla stessa religione islamica?
Il terrorismo purtroppo non si combatte con le parole, con le analisi, cercando di comprenderne le finalità o peggio ancora – come ha fatto Papa Francesco in un improvvisato discorso ai giornalisti nel viaggio di ritorno dalla Polonia – mettendo sullo stesso piano la violenza perpetrata in tutti i secoli da tutte le religioni indistintamente e paragonando la violenza contro le donne alla violenza islamista. Il terrorismo si combatte invece in primo luogo riconoscendo collettivamente chi è il nemico e stabilendo le regole per contrastarlo. Nelle immediate ore seguenti agli attentati in Francia e in Belgio in molti hanno suggerito di adottare il sistema di sicurezza israeliano.
Ma al di là dei semplicisti paragoni non si è andato. La lotta al terrorismo, Israele insegna, non è solo una questione di security ma è un’azione coordinata e concorde dell’intera collettività. Innanzitutto la minaccia terroristica deve essere percepita da tutti come una priorità rispetto alla quale non vi sono distinguo o compromessi e contro la quale si opera con durezza; poi è necessario accettare una parziale rinuncia alla privacy per consentire maggior capacità di controllo; è necessario aumentare gli investimenti in mezzi tecnologici (i Paesi europei investono in sicurezza mediamente 1,5% del proprio Pil, contro il 6% di Israele); è poi fondamentale la collaborazione dei privati, singoli e organizzazioni, che supportano e operano la dove lo Stato non riesce ad arrivare; infine il contrasto al terrorismo deve continuamente adattarsi al cambiamento delle minacce e quindi è necessario un sistema di difesa costantemente duttile e operativo.
Israele insegna che si può vivere in una permanente condizione di sicurezza/insicurezza e questo perché non esistendo una capacità di bloccare il terrorismo al 100% c’è comunque un alto prezzo in termini di vite umane perse. Ma Israele insegna anche che nonostante ciò, il Paese progredisce come democrazia e non come uno Stato con leggi di guerra, che piange i suoi morti ma anche che si compatta ogni volta di più che il sangue degli innocenti viene sparso. La lezione che viene da Israele e che trova origine in un insegnamento del Talmud, è in fondo semplice: “Chi è pietoso contro i crudeli finisce con l'essere crudele contro i pietosi”. Quindi nessun compromesso con chi, direttamente o indirettamente, vuole sgozzare, investire le persone, sparare o mettere bombe; nessun compromesso con l’ambiente culturale, politico o religioso che istiga alla violenza. Questo stesso approccio esiste anche in Europa, ed in particolare in Italia, dove la Chiesa cattolica parla di perdono e di misericordia, nonostante che da anni nei Paesi islamici vengano distrutte le chiese e assassinati i suoi fedeli? Potremo mai sperare di vincere il terrorismo con queste armi ?
Giacomo Kahn, direttore di Shalom