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La Stampa Rassegna Stampa
07.08.2016 Belgio: il paese-bengodi del terrorismo
Servizi di Leonardo Martinelli, Marco Bresolin, Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 07 agosto 2016
Pagina: 7
Autore: Leonardo Martinelli, Marco Bresolin, Maurizio Molinari
Titolo: «Attacco con il machete in Belgio, due agenti ferite, ucciso il terrorista-La centrale dei jihadisti europei, armi, appoggi e case sicure- I commessi viaggiatori della Jihad»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/08/2016., tre servizi sul terrorismo, il orimo la cronaca dal Belgio, il secondo una analisi di come il Belgio sia diventato il paese-bengodi degli stragisti (e non ce ne stupiamo, il Premier Charles Michel ha dichiarato " sembra un attacco con connotazione terroristica"!!), il terzo l'analisi del direttore della Stampa Maurizio Molinari.

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Il Premier belga Charles Michel, non sta salutando perchè ha dato le dimissioni, purtroppo

 

Leonardo Martinelli: " Attacco con il machete in Belgio, due agenti ferite, ucciso il terrorista"


Leonardo Martinelli

Sono risuonate le solite parole. Inquietanti, usurpate: «Allah è grande!». Così, in un sabato qualsiasi di inizio agosto, una giornata finalmente assolata a Charleroi, poco prima delle 16, lui si è presentato al posto di guardia installato sul boulevard Pierre Mayence, subito sotto una torre blu e lucida, la nuova sede del commissariato della città belga. D’un tratto ha preso dal suo zainetto un machete e si è avventato su una poliziotta: con ferocia, sul viso. Poi su un’altra, lì vicino. Finché una terza donna poliziotto, che ha assistito alla scena, lo ha colpito con un’arma da fuoco al torace e alle gambe. L’uomo ha gridato quelle parole: «Allah akbar!». Come da copione. Ieri sera la polizia federale belga esitava ancora a definire «atto terroristico» questo nuovo assalto in questa città, poco più di 200 mila abitanti, a una sessantina di km a sud di Bruxelles. Ma sulla base dei primi elementi in possesso degli investigatori, i contorni jihadisti della vicenda apparivano abbastanza inevitabili. L’uomo è stato subito portato all’ospedale Marie Curie ed è morto poche ore dopo: sotto i ferri, mentre veniva operato d’urgenza. Intanto anche una delle due poliziotte, ferita gravemente, era operata al centro ospedaliero Notre-Dame. Si trova ormai fuori pericolo, come la sua collega, ferita solo lievemente. Dopo l’aggressione, il commissariato e gli edifici intorno sono stati esaminati con cura da forze speciali. Hanno trovato una borsa sospetta, che è stata fatta saltare. «Qui siamo 905 poliziotti – ha spiegato David Quinaux, portavoce del commissariato -, come una grande famiglia. Ora che alcuni di noi sono stati aggrediti, siamo tutti toccati nel profondo. L’emozione è forte». «I miei pensieri – ha scritto su twitter Charles Michel, primo ministro belga – vanno alle vittime, ai familiari e agli agenti di polizia. Stiamo seguendo da vicino la situazione». È la polizia federale ad aver preso subito in mano le indagini, prova ulteriore che il carattere terroristico dell’assalto è fortemente sospettato. Si cerca di individuare chi fosse l’uomo che ha brandito il machete. Il premier Michel, in vacanza all’estero, è rientrato immediatamente in patria. Oggi sarà a Charleroi. Il Belgio, dopo gli attentati a Bruxelles lo scorso 22 marzo, che hanno provocato la morte di 32 persone, vive costantemente nella paura di nuovi attentati. L’allerta, su una scala da zero a quattro, è fissata attualmente al livello tre, che significa «una minaccia grave, possibile e verosimile». Pochi giorni fa, il 30 luglio, la polizia belga ha arrestato due persone, sospettate di partecipare all’organizzazione di nuovi attentati: una a Mons e l’altra a Liegi, ancora nella Vallonia, la parte francofona del Paese, dove si trova pure Charleroi. E qui, proprio lunedì scorso, è stato fermato Mohammad Al Fahdawi, un giovane iracheno di 25 anni, accusato di avere legami con un compatriota, Basman Assanad, arrestato lo scorso gennaio, dopo la scoperta nel campo profughi (il centro Fedasil de Jumet) di Charleroi, dove era alloggiato, di una bandiera dello Stato islamico e di video sospetti. Altri fermi sono stati effettuati nelle ultime settimane tra i rifugiati, con il sospetto di una cellula jihadista legata a Assanad. Da anni al centro del traffico illegale d’armi, perlopiù in arrivo dall’ex Jugoslavia, Charleroi, città cronicamente in crisi a livello economico, rappresenta da questo punto di vista in Europa una pedina importante. È stata invece meno toccata finora dal fenomeno dei foreign fighters, che vanno a combattere la jihad in Siria e in Iraq, più sensibile in certe aree di Bruxelles (il quartiere di Molenbeek) e altre sull’asse che corre tra la capitale e Anversa.

Marco Bresolin: " La centrale dei jihadisti europei, armi, appoggi e case sicure " 

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Marco Bresolin

L’attentato all’Hyper Cacher di Parigi nel gennaio del 2015. Le stragi del 13 novembre nella capitale francese. E ancora: almeno due kamikaze morti in Iraq in altrettanti attentati-simbolo. C’è un filo comune che lega alcuni dei principali attacchi terroristici degli ultimi anni. Ed è la città di Charleroi, sede di una delle più dinamiche centrali jihadiste d’Europa. Non è un caso che molti dei protagonisti dei recenti attentati siano passati da qui, in questo comune a sud di Bruxelles dove hanno trovato un solido supporto logistico retto da una rete fitta e dinamica. È qui che Amedy Coulibaly ha comprato le sue armi, utilizzate nell’assalto al supermercato Hyper Cacher di Parigi due giorni dopo la strage di Charlie Hebdo. La filiera di Jumet Qualche mese fa una cellula è stata smantellata proprio a Jumet, municipalità di Charleroi che si trova a due passi dall’aeroporto. Tutto è iniziato a gennaio quando, grazie ad alcune intercettazioni, sono stati fermati Albin Mbesse e sua moglie Nawel Z.: erano pronti per partire per la Siria. «Vogliamo portare aiuti umanitari alle popolazioni colpite dalla guerra» si erano giustificati. Giustificazione subito smentita da Bilal Mejdabi, il loro complice che doveva accompagnarli in questo viaggio: «Volevamo arruolarci nell’Isis per imparare come si uccidono i miscredenti e poi tornare in Europa». Da lì sono arrivati poi altri arresti di jihadisti «carolos» (abbreviazione di Carolorégiens, come vengono chiamati gli abitanti di Charleroi), tutti pronti a partire per il Medio Oriente. Due reclutatori di foreign fighter - Ahmed Ouider e Youssef Bouamar - sono stati arrestati nel maggio scorso. Youssef era conosciuto dalla polizia belga: poco tempo prima era finito in un’altra inchiesta per terrorismo. Alla caviglia portava un braccialetto elettronico. Le indagini sulla filiera di Jumet hanno svelato che il gruppo belga era in contatto con una cellula francese guidata da un certo Cuneyt Kolankaya, che stava progettando un attentato contro gli ebrei a Parigi subito dopo le stragi del 13 novembre scorso. Il covo di Abaaoud Proprio gli attentati al Bataclan, allo Stade de France e nelle terrasses parigine avrebbero fatto saltare l’attacco preparato a Jumet. I due gruppi, dunque, non avevano contatti. Eppure anche gli attentati del 13 novembre portano a Charleroi, visto che proprio qui aveva passato la notte Abdelhamid Abaaoud prima di entrare in azione nella capitale francese. La mente degli attacchi era ricercata dal gennaio del 2015, quando fu smantellata la cellula belga di Verviers. Ricercato dall’antiterrorismo di mezza Europa, che lo credeva in Siria (dove effettivamente era stato nei mesi precedenti), Abaaoud viveva in una casa tra rue du Fort e rue de la Garenne a Charleroi. Un modesto appartamento affittato il 3 settembre del 2015 e in cui sono state trovate le sue impronte digitali e quelle di Bilal Halafi, il più giovane del commando in azione a Parigi (aveva 20 anni). Gli inquirenti hanno il sospetto che in quella casa ci siano passati, proprio la notte prima degli attacchi al Bataclan, anche i fratelli Abdeslam: il 12 novembre i due erano partiti da Molenbeek, diretti - guarda caso - a Charleroi. La prima donna kamikaze Nelle inchieste sul terrorismo jihadista il nome di Charleroi non è una scoperta dell’ultimo biennio. Il primo faro si accese nel 2005, quando Muriel Degauqué si fece esplodere a Bakouba, in Iraq, durante il passaggio di un convoglio di militari americani. Fu la prima donna-kamikaze di origine europea. Nata a Monceau-sur-Sambre, municipalità di Charleroi, si era prima convertita all’Islam. Poi alla jihad. Dieci anni dopo, il 25 aprile del 2015, la stessa sorte è toccata a Karim, un 19enne nato a Charleroi, morto dopo aver compiuto un attentato suicida alla frontiera tra Iraq e Giordania. La sua rete nella città belga è stata smantellata pochi mesi dopo. Altre, probabilmente, continuano a lavorare.

Maurizio Molinari: " I commessi viaggiatori della Jihad " 

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Maurizio Molinari

Lo Stato Islamico alimenta le proprie operazioni in Europa con flussi di denaro che arrivano a destinazione spostando cifre assai ridotte attraverso l’«hawala», meglio noto come «il bancomat dei terroristi». Raramente queste cifre superano i 10 mila dollari, spesso di tratta di molto meno e non di rado si scende sotto i mille dollari. Questo metodo di finanziamento è uno degli elementi di forza del network jihadista perché i sistemi di sorveglianza bancari esistenti - creati su iniziativa delle amministrazioni Usa negli ultimi venti anni per far rispettare sanzioni internazionali e dare la caccia ai grandi network del terrore - si basano invece sulla ricerca di somme significative, camuffate nelle modalità più differenti. Il blitz messo a segno dall’anti-terrorismo spagnolo a Girona, a fine luglio, ha portato a catturare due maghrebini - di 22 e 32 anni - impegnati a garantire il passaggio di queste somme minori di denaro provenienti o destinate al Califfato. Si tratta dalla punta dell’iceberg di un network segreto stimato - solo in Spagna - in almeno 250 «hawaladar» che operano fra Barcellona, Tarragona, Lleida, Bilbao, Santander, Valencia, Madrid, Logroño, Léon, Jaén e Almería. Gli «hawaladar» sono individui che gestiscono reti di trasferimento di denaro denominate «hawala» basate su rapporti di fiducia ed onore fra loro. L’origine risale all’antichità quando nel mondo islamico le banche non esistevano e ci si affidava a persone di fiducia trasferimenti (in arabo «hawala») di denaro attraverso grandi distanze ed ancora oggi milioni di emigrati asiatici ed africani ricorrono a tale sistema, segreto ed anonimo, per inviare a casa le rimesse. Più volte in passato singoli gruppi terroristici, a cominciare dai taleban afghani negli Anni Ottanta, hanno adoperato gli «hawaladar» come fonte di finanziamento ma ora lo Stato Islamico lo fa in maniera massiccia, trattandosi di un metodo capace di sostenere attività dai costi estremamente ridotti. Ciò che colpisce le forze di sicurezza in più Paesi occidentali è quanto l’«hawala» sia diventato un elemento distintivo dello Stato Islamico: le unità della «Provincia del Sinai» che operano contro le forze egiziane ricevono dagli «hawaladar» in arrivo dall’Iraq e dal Golfo i fondi necessari ad alimentare la propria guerriglia così come cellule jihadiste li sfruttano in India e sono le cifre minime spostate da simili «broker di fiducia» a consentire di finanziare sovente le azioni in Europa dei «lupi solitari» da loro considerati «soldati dell’Islam». Gli «hawaladar» sono, molto spesso, singoli individui che si spostano fra luoghi differenti portando con sé cifre minime, consegnandole ad una piccola bottega - macellai, call center, spacci di alimentari, rivenditori di usato - dove il destinatario li va a prelevare. Identificare questa versione jihadista dei commessi viaggiatori non è facile perché si presentano come semplici passeggeri con indosso cifre non significative. Tanto più che si fanno scudo con un sistema di trasferimento anonimo di denaro che alimenta milioni di famiglie del tutto estranee al terrorismo. L’inchiesta di Paolo Baroni che pubblichiamo su questo giornale descrive quanto la caccia agli «hawaladars» sia in corso anche nel nostro Paese, portando ad una maggiore sorveglianza sul network dei «Money Transfer» perché a volte coincide o si sovrappone con gli scambi fra i broker jihadisti. Come spiega Richard Barrett, ex ufficiale dell’intelligence britannica oggi vicepresidente del «Soufan Group» di New York, «la Spagna è stato il primo Paese a scoprire l’uso dell’hawala da parte dei terroristi jihadisti ma è in realtà diffuso in tutta l’Europa» perché, aggiunge David Butter analista del britannico «Chatham House», «questo è da sempre il metodo con cui si spostano i soldi nel mondo arabo» e consente anche a Isis di «ricavare notevoli margini» da ogni tipo di transazione.

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