Donatella Calabi
Venezia e il ghetto
Bollati Boringhieri
Quando si dice: lo spaccato di un ambiente e di un’epoca. Datato 1778, il disegno di Giorgio Fossati è esattamente questo, e lo è nella doppia accezione del termine. È il disegno in sezione di una casa del Ghetto, per mano di un noto architetto del Settecento veneziano. Ma è anche una rappresentazione diretta, immediata, dei modi di vita in quella casa del Campo di Ghetto Nuovo: la casa «sopra il Rio di San Gerolamo» (il «camarino», si legge nell’appunto a sinistra) dove abita la signora Giuditta Alpron. I piani dell’edificio sono addirittura sette, cui va aggiunta una mansarda. La signora Giuditta si è riservata gli ultimi due, con il sottotetto e una terrazza. Negli altri piani – che hanno i soffitti particolarmente bassi: sono poco più che mezzanini, per aumentare il numero di alloggi disponibili – si addensa, si incrocia, si pesta i piedi una varia umanità. Davide Zemello risulta abitare sia al pianterreno, cioè al livello del Rio, sia al terzo piano. Al primo piano stanno i fratelli Valenzin, al secondo Isac Vita Todesco, al quinto i fratelli Malta. Al quarto piano è insediata la Fraterna da Maritar Donzelle, un’associazione di carità per le giovani prive di dote. Tutti gli occupanti della casa sono ebrei. E tutti vivono in affitto.
Nel pieno dell’età dei Lumi, la proprietà immobiliare resta preclusa agli israeliti, quand’anche entro i limiti del quartiere loro imposto e riservato. Il Ghetto di Venezia era stato il primo in Europa, al punto di dare il nome alla cosa: la parola «ghetto» derivava dal «getto» delle scorie di una fonderia di rame situata lì, a Cannaregio, dopo che la «g» dolce del dialetto veneto aveva ceduto il passo – nella lingua degli ebrei ashkenaziti – alla «gh» dura del tedesco. Il 29 marzo 1516, la Repubblica Serenissima aveva ordinato a «li Giudei» della città di «tutti abitar unidi» nella «Corte de Case» presso San Gerolamo, «acciocché non vadino tutta la notte attorno». Ogni mattina, soltanto al primo suono della campana di San Marco gli ebrei di Venezia (cinquecento o settecento che fossero, secondo i calcoli del diarista Marin Sanudo) avrebbero avuto il diritto di lasciare il Ghetto per affaccendarsi, al mercato di Rialto, nelle solite loro faccende: i banchi di pegno, la vendita di stoffe, il riciclo di abiti e oggetti usati. In fondo, tenere gli ebrei dentro la città, senza ricacciarli verso la Terraferma od oltre le acque del Lido, costituiva un buon affare così per i padroni di casa come per l’erario della Repubblica.
«Quando li hebrei andassero via di Venetia – ragionava un proprietario – si caveria molto poco, per esser loco picolo e di poco momento, et a ridurlo che li potessero habitar cristiani li bisognarabe spender molti denari». Trattenere gli ebrei a Venezia profittava anche alle casse dello Stato, poiché incrementava il gettito fiscale; e comunque valeva a conservare sul posto i beni dei cristiani finiti in mano a zudei attraverso i banchi dei pegni. Insomma, occorreva fare buon viso a cattivo gioco. Bisognava vendere agli ebrei il diritto d’accesso all’acqua dei pozzi. Bisognava individuare i luoghi dove potessero tagliare ritualmente la loro carne. E bisognava rassegnarsi a quelle poche case di Cannaregio straripanti e maleodoranti, «otto e diese e alle volte molte più persone quali stano in un sol logo streti et con molto fettor».
Del Ghetto, nel cinquecentesimo anniversario, Donatella Calabi restituisce ora una storia anzitutto urbanistica. Segue l’allargarsi del quartiere recintato, quando al Ghetto Nuovo si aggiunse il Ghetto Vecchio (i nomi traggono in inganno) e poi il Ghetto Nuovissimo. Accompagna l’accrescersi demografico della comunità ebraica di Venezia, quando agli ashkenaziti si sommarono i sefarditi, levantini o ponentini, elevando a quasi cinquemila – verso la metà del Seicento – il numero di israeliti abitanti in città, il 3% della popolazione totale. Sottolinea la svolta intervenuta nel 1589, quando gli ebrei furono ufficialmente autorizzati dalla Repubblica a «tener sinagoghe, secondo l’uso loro»: le cinque sinagoghe tanto dimesse nell’aspetto esteriore quanto trionfanti, all’interno, di luce naturale e artificiale, che ancora oggi testimoniano ai turisti di una vita religiosa tutta concentrata sull’illuminazione del Libro. Lungi dall’esaurirsi tra banchi e banche di Rialto, la quotidianità degli ebrei veneziani era fatta di mille altre cose. Le yeshivot dove bambini (i maschi, ma anche le femmine) e ragazzi studiavano dapprima l’ebraico e la Bibbia, poi le scienze e la filosofia. Le stamperie dalle quali uscirono, fra Cinquecento e Settecento, autentici tesori di letteratura biblica, talmudica, cabbalistica. Le botteghe di Cannaregio (legali o illegali) dove si lavoravano gioielli, si trafficavano preziosi, si confezionavano e si smerciavano pellicce. E ancora i forni per il pane e per le azzime, i negozi di cibo kosher, le botteghe del barbiere e del cappellaio, l’antro dell’alchimista, il deposito delle casse da morto destinate a viaggiare in gondola – un giorno o l’altro – verso il cimitero di San Nicolò al Lido: l’unico bene immobile che gli ebrei veneziani avessero il diritto di possedere.
Come per altre comunità ebraiche degli antichi Stati italiani, così per la comunità di Venezia la fine dell’isolamento avvenne per tappe, con fughe in avanti e marce indietro, nei decenni compresi tra l’epopea di Napoleone e l’epopea del Risorgimento. Durante la Restaurazione, il governo austriaco riconobbe agli ebrei la possibilità di accedere alla proprietà immobiliare. Banchieri come gli Errera o i Levi poterono dunque muovere alla conquista di prestigiosi palazzi sul Canal Grande, mentre la declinante popolazione del Ghetto pur cercava di conservare le sue antiche abitudini. Cercava di evitare che la fine delle interdizioni coincidesse con la fine delle tradizioni. Cercava di non pagare troppo caro il prezzo dell’uguaglianza.
Separate da un secolo di storia, due istantanee tratte dal libro di Calabi – l’una curiosa, l’altra drammatica – rappresentano l’alfa e l’omega di questa storia. Il 1° dicembre 1830, il medico Giuseppe Levi procede a un rilevamento delle oche possedute dai macellai operanti nel Ghetto, e ne conta nientemeno che 1.580: in pratica, un’oca per ogni ebreo allora residente in città, a suggello della centralità dell’oca nell’arte del «mangiare alla giudia», perché non mancasse mai in tavola un salame d’oca, o un fegato grasso, o una focaccia alla pelle d’oca fritta. Il 17 settembre 1943, il medico Giuseppe Jona, anziano presidente della comunità israelitica locale, preferisce suicidarsi piuttosto che consegnare ai nazifascisti l’elenco dei suoi correligionari destinati ai treni per Auschwitz. Rinunciare all’allevamento delle oche non era bastato agli ebrei per farsi accettare quali uomini e donne come gli altri.
Sergio Luzzatto - Il Sole 24 Ore