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La Repubblica Rassegna Stampa
26.07.2016 'Il mio nome è Shylock': Shakespeare e gli ebrei
Susanna Nirenstein intervista Howard Jacobson

Testata: La Repubblica
Data: 26 luglio 2016
Pagina: 38
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «'Vi racconto il mio Shylock padre single umano e fragile'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/07/2016, a pag. 38, con il titolo "Vi racconto il mio Shylock padre single umano e fragile", l'intervista di Susanna Nirenstein a Howard Jacobson, autore di "Il mio nome è Shylock".

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Susanna Nirenstein

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Howard Jacobson

Scomodo e disturbante lo Shylock di Shakespeare. Un usuraio ebreo di fine Cinquecento pronto a tagliare «una libbra esatta della vostra bella carne» dal corpo di Antonio per riscuotere il debito contratto a nome di un amico. Era una canaglia orrenda nella testa del genio di Stratford? O una figura tragica controcorrente nata dalla sua incommensurabile capacità di entrare negli animi umani più controversi? Il terzo atto in cui pronuncia la celebre invettiva «Un ebreo non ha occhi? Non ha mani, un ebreo, membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni? (…) Se ci pungete non sanguiniamo? (…) E se ci fate torto, non ci vendicheremo? (…) Se un ebreo fa un torto a un cristiano, che fa il mite cristiano? Vendetta! (…) Metterò in pratica la malvagità che mi insegnate », forse oggi, all’indomani dei diritti umani e della Shoah, sembra una rivendicazione matematica, ma se si pensa che è stata scritta tra il 1596 e il 1598 è addirittura sconcertante nella sua profondità, nel suo coraggio, tanto più che veniva declamata in un’Inghilterra che aveva cacciato i suoi ebrei nel 1290, sotto Edoardo I. D’altro canto Shylock è brutto, col naso adunco, avido, simile per certi versi a quello perfido disegnato poco prima da Christopher Marlowe con L’ebreo di Malta.

Come risolvere questa dicotomia nel nostro giudizio? E in quello di Shakespeare? La Hogarth Press, in occasione dei quattrocento anni dalla morte del grandissimo poeta, ha risolto il problema affidando la riscrittura del Mercante di Venezia al Man Booker Prize (con L’enigma di Finkler del 2010) Howard Jacobson (mentre dava invece La tempesta a Margaret Atwood, Macbeth a Jo Nesbø, La bisbetica domata a Anne Tyler, Otello a Tracy Chevalier e via dicendo, tutti tradotti e pubblicati da Rizzoli come il nostro Il mio nome è Shylock), il 73enne inglese che ha sempre fatto dell’ebraismo e dei meandri complicati dell’identità ebraica il cuore della sua poetica. Ambientandolo nell’attuale e ricco Triangolo d’Oro di Manchester, lui ne ha fatto un avvincente romanzo di amore, morte, arte e carne, un romanzo polemico con la modernità e tessuto di sofferenza dei padri solitari, superficialità dei figli, solitudine, donne inquiete, uomini volitivi, o vacui e depressi. E carico di ebraicità naturalmente, biblica, passata ed attuale, con tutte le inesauribili domande che l’argomento comporta. Anche ridendoci un po’ su, come è nel suo stile.

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La copertina

Mr Jacobson, cosa ha pensato quando le hanno proposto la riscrittura moderna di un’opera shakespeariana che mette in scena un ebreo tanto sgradevole e inquietante? Non l’ha trovato un invito malizioso? «Credo sia stata una proposta innocente. A chi affidare la commedia dell’ebreo? A Jacobson. Ho sempre scritto di ebrei, non mi posso lamentare. Il problema era che non mi era mai piaciuta molto: l’avevo letta a scuola trovandola imbarazzante. Non perché fosse antisemita, se mai l’opposto. “Non ha occhi un ebreo?” la giudicai una non domanda e non me ne occupai più. Nemmeno all’università. Era la mia commedia dimenticata. Forse c’era un motivo psicologico. Ma la rilessi prima di accettare l’incarico e mi sembrò diversa – tetra, perplessa, arrabbiata».

Antisemita? «L’idea, la sola idea, che Shakespeare potesse scrivere un’opera antisemita – data l’istintiva magnanimità dell’autore, il suo impegnarsi soprattutto in personaggi che ispirano la diffidenza nella gente – mi è sempre sembrata assurda. L’antisemitismo, come tutti i pregiudizi, abita le piccole menti».

Cosa voleva dirci Shakespeare degli ebrei? «Non son sicuro volesse esprimersi sugli ebrei. Che non sia una commedia antisemita non significa che sia filosemita, o che sia frutto di un qualche studio sul giudaismo. Shakespeare ereditava dal Medioevo una massa di superstizioni sugli ebrei che non aveva gli elementi per correggere, forse non conosceva nemmeno un ebreo in carne ed ossa. Ma riconosceva i pregiudizi, e capiva che questi prendono forza dalla disumanizzazione dell’oggetto della paura. Non era un polemista, era un drammaturgo. Ci coinvolge nelle vite di personaggi impopolari rendendoli umani. E così entriamo nei sogni di Calibano, nelle passioni di Malvolio impazzito, nelle emozioni di Shylock – i sentimenti che ha per la figlia Jessica, l’amore per la moglie morta. Insomma, non è l’ebraicità di Shylock che Shakespeare salva, è la sua umanità».

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William Shakespeare

È stato difficile resuscitare Shylock? «Sì. Molto. Ero libero di immaginarne una versione moderna in qualunque modo. Ma poi ho deciso che nel romanzo avrei messo proprio lo Shylock di Shakespeare, una figura molto forte, divisiva. La sfida era farlo rivivere nel mondo contemporaneo, con un linguaggio che non imitasse quello del drammaturgo, eppure cogliesse l’energia del suo spirito e sarcasmo, porgendolo eppure tenendolo lontano, onorando il suo mistero».

Lei ci mette due Shylock davanti, quello shakespeariano e il suo alter ego moderno, Strulovitch, e li fa interagire. Quali differenze la interessavano? «Prima pensavo a un’equivalenza – due padri ebrei che hanno problemi a tirar su le figlie uniche da soli, etc. Ma quando ho avvertito che avevo bisogno di Shylock, che doveva essere lì, e tuonare, allora volevo liberarmi di Strulovitch. Poi ho visto il vantaggio drammatico che avrei avuto a tenerlo. La sua ebraicità sarebbe stata diversa da quella di Shylock, più assimi- lata, e fra loro ci sarebbe stato modo di confrontarsi, litigare».

I due discutono sull’inimicizia dei cristiani. Perché lei non ha introdotto anche i nemici contemporanei degli ebrei, gli antisemiti, gli islamisti così sottolineati nei romanzi passati? «Non volevo riscrivere L’enigma di Finkler. Non volevo essere politico questa volta, perché non c’entrava col dramma di Shylock».

Eppure Strulovitch si chiede se ha abbastanza denaro per fuggire in caso la situazione si mettesse male per gli ebrei. Molto attuale. Gli ebrei francesi vanno in Israele, e anche in Inghilterra gli atti di antisemitismo sono quintuplicati negli ultimi anni. Lei ha mai pensato di andare a vivere nello Stato ebraico? «Un personaggio dell’ Enigma di Finkler, parlando dell’antisemitismo europeo, dice: “Non è ancora la Notte dei Cristalli”. Come possiamo riconoscere la nostra Kristalnacht? È una questione molto seria per gli ebrei. Non penso sia vicina, ma certo gli ebrei tedeschi un secolo fa avrebbero detto lo stesso. E anche se non sono stato cresciuto proprio come un sionista, Israele ci è sempre apparsa come una scialuppa di salvataggio: possiamo non averne bisogno ora, ma forse accadrà nel futuro. La vedo ancora così. E se la gente mi dice che è un’isteria ebraica, e che siamo eccessivamente portati a immaginare il disastro, gli rido in faccia. Sono bravi a ridere gli ebrei. E dietro la nostra risata c’è sempre l’anticipazione della prossima catastrofe».

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