Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/07/2016, a pag. 24, con il titolo "Dobbiamo imparare a stare sul chi vive come fanno gli israeliani da anni", la lettera di Stefano Masino e la risposta di Stefano Stefanini.
Stefano Stefanini
Operatori di sicurezza israeliani
Caro Stefanini, prima di porle la domanda «seria» sul tema, desidero confidarle un pensiero. Nella normalità, quando si riflette sull’ultimo istante della nostra vita, generalmente speriamo che la morte ci colga nel sonno, per non provare dolore. Da quando siamo immersi in questo «clima» di terrore e paura, il modo di pensare è un po’ cambiato. L’augurio adesso, qualora dovessimo malauguratamente incappare in qualche azione terroristica, è quello di non accorgersene: saltando in aria causa un ordigno esplosivo, per esempio, e morire sul colpo; piuttosto che sperimentare la fine terribile di quei prigionieri in casacca arancione, cui la mano fredda di un terrorista incappucciato ha reciso la gola in diretta video.
Ma ecco la domanda, che mi è venuta in mente domenica mentre attendevo alla stazione di Milano centrale. Mettiamo il caso di restare davvero coinvolti in un’operazione di stampo terroristico. A parte iniziare a pregare e cercare vie di fuga, mi chiedo qual è la cosa giusta da fare: chi bisogna allertare per primo? Il 112 (Carabinieri, emergenza europea)? Oppure esiste un numero «sos» d’emergenza anti terrorismo?
Può sembrare una domanda banale, ma guardiamo a Monaco (Germania); come si sono comportati quei cittadini venuti a contatto con il killer? Un operaio gli ha lanciato una bottiglia di birra; un altro lo ha ripreso con il telefonino sul tetto di un edificio.
Cosa dobbiamo fare? Siamo sufficientemente addestrati?
Stefano Masino - Asti
Caro Masino, non siamo addestrati a reagire a queste esplosioni di violenza selvaggia e gratuita. Non siamo abituati a tenere alta la guardia nel quotidiano, in un ristorante, alla stazione, a una partita di calcio, tanto meno in un assiepamento festivo come alla Promenade des Anglais.
I terroristi ci vogliono insicuri quando non ne avremmo motivo; vogliono farci avere paura delle nostre abitudini. Il panico seminato dagli attacchi di Bruxelles, Orlando o a Monaco è un moltiplicatore di paura. Gli attentatori possono spuntare su un treno come su una spiaggia. Non c’è addestramento costante per ogni evenienza.
Ma qualcosa si può fare. Cominciamo con la sua ottima domanda. Se disgraziatamente alle prese con un attacco terroristico, chi chiamo? Confesso ignoranza su linee speciali. Credo pertanto che il 112 resti il numero da chiamare. Salvo apposite misure delle quali sarà essenziale che il pubblico sia informato adeguatamente.
L’informazione è chiave. Sta alle autorità, italiane ed europee, impartire direttive chiare e semplici. Il loro dilemma è che non vogliono creare allarmismi. Non possono però ignorare che l’emergenza terrorismo esiste, che tocca tutti da vicino e che la gente si chiede «se succede a me, cosa devo fare?». Temono che parlarne semini nervosismo e paura? A parlarne ci pensa la cronaca. Spiegazioni sull’emergenza tranquillizzerebbero anziché spaventare. Chi si spaventa ascoltando le istruzioni sulla maschera a ossigeno e le uscite di salvataggio in ogni volo di linea? Non si può far ricadere tutto sulle autorità. Ognuno di noi deve imparare a stare sul chi vive più di quanto fossimo abituati a fare. Gli israeliani lo fanno da anni. Senza drammatizzare - le vittime del terrorismo restano una frazione degli incidenti stradali - ma con occhio attento specie in mezzo a assembramenti fisiologici, come a Lei capitato alla stazione di Milano. Triste, ma così.
Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante