Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/07/2016, a pag. 1-2, con il titolo "Ali e la falsa offerta su Facebook per vendicare anni di bullismo", la cronaca di Paolo Colonnello.
Sulla Stampa Monica Perosino (ma anche sugli altri principali quotidiani) traccia un parallelismo tra l'attentato di Monaco e la strage di Utoya del terrorista Breivik. Due vicende del tutto diverse, dal momento che Breivik era accecato in primo luogo dall'odio suprematista bianco verso il partito laburista svedese (corresponsabile, tra l'altro, dell'invasione silenziosa dei musulmani in Svezia).
La polizia di Colonia ci ha messo tre giorni prima di rivelare l'accaduto della notte di Capodanno, cercando di nascondere l'identità degli assalitori musulmani in onore al politicamente corretto. Non stupisce che l'atteggiamento oggi nei confronti del terrorista iraniano segua lo stesso schema. I giornali danno credito alla versione della polizia, credibile però fino a un certo punto visto il suo atteggiamento in passato.
Ecco l'articolo:
Ali Sonboly, l'assassino di Monaco
Né terrorismo, né nazismo: solo bullismo dietro la strage di Monaco. Ali Sonboly, 18 anni, per vendicarsi dei soprusi a scuola, aveva deciso di inventare una pagina Facebook per attirare più giovani possibili nella sua trappola, invitandoli al McDonald’s venerdì pomeriggio: 8 delle sue vittime avevano meno di vent’anni. Ali il timido, il brufoloso, il diciottenne che faceva fatica a convivere con la sua adolescenza di giovane tedesco figlio di immigrati iraniani, si era perduto già molto tempo fa.
Ben prima che venerdì pomeriggio decidesse di mettersi nello zainetto rosso un arsenale con 300 proiettili e una Glock 9 millimetri parabellum per andare a regolare i conti con i suoi coetanei e con se stesso, suicidandosi alle otto e mezzo di sera dopo aver compiuto una strage di 9 persone. Quasi tutti ragazzini tra i 14 e i 21 anni, falciati per strada alle sei di sera davanti al McDonald's del quartiere Moosach e nell’atrio del centro commerciale Olimpya, tutto ciò che rimane a memoria dell’antico villaggio olimpico che nel 1972 fu teatro di una strage di atleti israeliani ad opera di terroristi palestinesi. Ma Ali non ha niente a che fare con il terrorismo, solo con la follia, come ripetono quasi a volersi rassicurare le autorità di polizia, ammesso che tra le due categorie ci sia ormai questa grande differenza.
E dato che a qualcuno bisogna pur affidarsi per giustificare così tanto sangue versato, questo ragazzino goffo, tutto casa e tormento, alle bandiere nere dell’Isis aveva preferito di gran lunga il cuore nero di Anders Breivik, il norvegese che lo stesso giorno di 5 anni fa sull’isola di Utoya uccise 69 studenti. Ali studiava le sue gesta ossessivamente su Internet e a lui si sarebbe ispirato per la strage, come spiega il procuratore di Monaco, Thomas Steinkraus-Coch, parlando della «malattia depressiva» del giovane nella cui camera, a fianco al letto, è stato trovato un libro che è tutto un programma: «Furia nella testa: perché gli studenti uccidono». Mentre Ali avrebbe fatto meglio a studiare sui libri di scuola, visto che prima di andare a sparare venerdì sera davanti al centro commerciale a non più di tre chilometri da casa, luogo di ritrovo dei ragazzini come lui, esattamente una settimana fa aveva collezionato l’ennesimo fallimento, non riuscendo a superare l’ultimo esame dell’anno a scuola. E i suoi compagni, al solito, lo avevano preso in giro. Bullizzato «per sette anni, a causa vostra!», come lui stesso ha urlato dal tetto del garage del centro commerciale all’uomo che lo insultava dandogli dello «str...» e poi dello straniero mentre venivano ripresi con un telefonino. «Ma io sono tedesco!», ha risposto il giovane prima di schivare alcuni proiettili della polizia e riuscire ad eclissarsi miracolosamente per andare a suicidarsi non lontano da lì, sparandosi un colpo alla testa nella zona Nord del centro commerciale, proprio davanti a una pattuglia.
Ali David Sonboly, 18 anni compiuti da poco, si era perduto durante l’anno scolastico, giurando a se stesso e ai compagni che si sarebbe vendicato di tutti quei sorrisi, quegli scherzi brutali, quell’isolamento che lui alimentava diventando sempre più silenzioso, depresso, astioso: «Smettetela, ve la farò pagare. Prima o poi farò una strage». «Diceva proprio così», racconta Safete D., la sua giovane vicina di casa macedone di 15 anni, mentre al quinto piano del palazzo in Dachauer Strasse 67, davanti alla porta chiusa dell’appartamento dove Ali viveva con il fratello Daniel e i genitori, tiene banco sul pianerottolo di una casa dell’edilizia popolare tedesca abitata quasi esclusivamente da immigrati. Safete e la sorella Melinda, di un anno più anziana, Ali lo incontravano tutti i giorni perché oltre ad abitare nello stesso palazzo andavano nella stessa scuola. Un edificio bianco e imponente, vagamente gotico, la Alfonsmitteschule in Lazaretestrasse, non molto distante dai luoghi della strage, immerso in un quartiere ordinato e verde, niente affatto periferico. Il concessionario della Maserati sotto casa, il bar con i prodotti bio, il negozio con i vestiti ricercati, il papà tassista, la mamma impiegata in un grande magazzino. Una vita semplice, apparentemente felice in una città ricca ma discreta e nella quale Ali covava il suo male oscuro, in cura saltuariamente dagli psicologi. «So che aveva problemi con lo studio, un anno fa aveva cambiato scuola e litigava spesso con i suoi compagni. Non è mai stato un tipo espansivo, ma negli ultimi tempi era cambiato, era diventato più taciturno. Venerdì quando l’ho salutato non ha risposto. Non avrei mai immaginato una cosa del genere», conclude Safete.
Già, chi lo avrebbe mai detto che questo ragazzone depresso, che aiutava il papà nel lavoro alla cooperativa di taxi e il venerdì e il sabato si dava da fare consegnando i giornali nel quartiere, avrebbe compiuto una strage? I poliziotti che venerdì notte hanno prelevato i genitori dalla loro abitazione avrebbero tanto voluto saperlo, ma i coniugi Sonboly erano talmente distrutti che non sono riusciti a rispondere scoprendo invece, come spesso succede, di avere un figlio che non conoscevano. E che aveva studiato il piano della strage nei minimi particolari, fino a inventarsi una pagina Facebook per attirare quanti più ragazzi possibili al McDonald's, offrendo panini gratis. Non è sicuro che abbia urlato «Allah Akbar» prima di premere il grilletto, oppure imprecato contro i turchi, come riferiscono vari testimoni. Ma non è molto importante. Una ragazzina, figlia di immigrati pugliesi, racconta di averlo avuto seduto vicino, silenzioso e tranquillo e poi di essere uscita dal locale con lui e di averlo visto iniziare a sparare. Con una pistola dalla matricola abrasa che per ora è l’unico giallo di questa storia: come Ali sia riuscito a procurarsela insieme a centinaia di proiettili, rimane al momento un mistero.
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