Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 22/07/2016, a pag. II, con il titolo "Cos'è il 'governo del popolo' secondo i Fratelli musulmani", l'analisi di Matteo Matzuzzi; con il titolo "Piazza pro Sultano", l'analisi di Andrea Affaticati.
Ecco gli articoli:
Matteo Matzuzzi: "Cos'è il 'governo del popolo' secondo i Fratelli musulmani "
Matteo Matzuzzi
Erdogan con in mano una copia del Corano
Roma. “Siamo dinanzi alla vittoria postuma di Hassan al Bannah, il fondatore della Fratellanza musulmana, su Atatürk”, dice al Foglio Luciano Pellicani, sociologo e professore emerito alla Luiss Guido Carli, commentando quel che accade sulle rive del Bosforo, con il presidente Recep Tayyip Erdogan che, come ultima mossa dopo il golpe fallito della scorsa settimana, ha deciso di sospendere unilateralmente la convezione europea sui diritti umani.
“Quello che sta accadendo è che il progetto di Atatürk si sta arenando. Lui voleva europeizzare la Turchia, rendere i turchi degni dell’Europa. Per Mustafa Kemal, la civiltà era solo una, ed era quella occidentale. L’opposto di quel che predicava al Bannah, un modesto insegnante musulmano che creò la Fratellanza proprio come reazione all’abolizione del Califfato decisa ad Ankara”. Erdogan, insomma, è oggi il degno successore del fondatore della Fratellanza, nonostante le naturali differenze tra il modello egiziano e la realtà turca. “Ma anche lui ha ben presente quello che è uno dei punti chiave del disegno perorato da al Bannah, e cioè il concetto di gradualità”, osserva Valentina Colombo, docente di Geopolitica dell’islam all’Università europea di Roma. “Erdogan usa la gradualità per reislamizzare la Turchia, procede a tappe”. Lo schema è quello già attuato in Egitto e in Tunisia: presentare leader vestiti all’occidentale, mostrarli disponibili a ogni forma di dialogo, flessibili e realisti in politica estera e intenti a rassicurare le cancellerie che non c’è alcuna intenzione di dar luogo a sistemi islamisti, fondati cioè sul connubio tra islam e politica.
L’esempio più recente è quello di Mohammed Morsi, il presidente egiziano eletto dopo la caduta di Hosni Mubarak e rimosso da un intervento delle Forze armate: “E’ vero che è stato cacciato dall’esercito, ma prima non dimentichiamo che c’era stata una mobilitazione sul terreno del movimento Tamarrod, con milioni di firme popolari a sostegno della rimozione del presidente”, sottolinea Colombo. Che poi è ciò che aveva previsto già nel 2011 Jean-Pierre Filiu, docente di Studi mediorientali alla parigina Sciences Po, quando in un rapporto pubblicato dal Washington Institute avvertiva che il “Game over” che le piazze del Cairo urlavano contro Mubarak e la sua corte avrebbe potuto applicarsi pure alla Fratellanza, “visto che ormai non rappresenta più l’unica alternativa politica, come era stato fin dai tempi di Nasser”. Il metodo indicato da al Bannah e poi revisto alla luce dei tempi mutati consiste nell’usare la democrazia per raggiungere il potere: campagne elettorali più o meno regolari, elezioni, assemblee parlamentari, governi costituzionali. Poi, il caos. Con rare eccezioni. Convenzioni sui diritti umani sospese, censura, persecuzione delle minoranze (i copti in Egitto, le chiese devastate in Turchia negli ultimi giorni), commistione tra potere spirituale e temporale, “che è quello che voleva al Bannah, rivitalizzare il Califfato in terra egiziana dopo che Atatürk l’aveva abolito”, dice Pellicani.
“La strada è quella della reislamizzazione dal basso: opere caritatevoli, vicinanza alla popolazione stremata e povera. Tutto viene fatto nell’ottica di preparare la scalata democratica al potere, con le folle che saranno grate ai fratelli musulmani per aver avuto viveri e assistenza medica”, nota Colombo: “E’ un percorso a tappe verso il graduale impadronimento del potere. In quest’ottica, si comprende come la democrazia sia fondamentale. Ed è proprio questo un elemento di scontro assai forte tra la Fratellanza da un lato lo Stato islamico e al Qaeda dall’altro. Non a caso, sulla rivista fondamentalista Dabiq, Morsi e i suoi sono stati definiti apostati”. L’accusa è quella “di accettare i sistemi istituzionali occidentali, primo dei quali la democrazia”. Salvo poi abbandonare, una volta al governo, ogni aggancio ai valori che la democrazia incarna. “Erdogan sta commettendo lo stesso errore fatto da Morsi nel 2013, sta calando la maschera e ritengo che un domani la comunità internazione potrebbe reagire. Sta accelerando una deriva autoritaria che risponde ai princìpi dell’islam politico”.
C’è un esempio che chiarisce la strategia della Fratellanza musulmana, i limiti e gli obiettivi a lungo periodo della sua azione. “Nel 2013, parlando della caduta di Morsi su al Arabiya, il tunisino Rachid Ghannouchi disse che i Fratelli musulmani avevano perso il potere perché erano stati ingenui. ‘Hanno preteso troppo’, aggiunse”, ricorda Colombo. Proprio l’esempio tunisino “è quello di un movimento che, pur di rimanere nel gioco, due anni fa è uscito dal governo. Ecco perché sostengo che uno dei punti cardine dell’organizzazione fondata da al Bannah sta nel procedere lentamente, usando la democrazia per giungere al potere e poi dispiegare la propria forza”. Erdogan sta facendo la stessa cosa e può contare su una base popolare solidissima, che pare ormai guardare più a lui che al mito fondatore Atatürk, artefice di un modello più unico che raro. “Bourghiba tentò di impiantare in Tunisia il modello di Kemal. Andò in televisione e propose di abolire il Ramadan, perché incideva troppo sull’economia del paese. Ci fu una levata di scudi fortissima, e pure un uomo del calibro di Bourghiba dovette cedere”, conclude Pellicani.
Andrea Affaticati: "Piazza pro Sultano"
Andrea Affaticati
Una tedesca di origine turca manifesta per Erdogan
Milano. “Allahu akbar” gridavano, sventolando la bandiera con la mezzaluna, centinaia di turchi a Vienna, sabato e domenica scorsi, durante le manifestazioni organizzate a favore del presidente Recep Tayyip Erdogan. Su un post di un utente Facebook che si firma “il turco ideale” si leggeva invece: “Per denunciare una persona in Austria ci si rivolge alla polizia, ma se si tratta di una delazione allora si possono direttamente contattare le istituzioni in Turchia. Il talk show con Hasada Özkilinç dell’Unione dei democratici europei turchi in Austria (Uetd) è stato illuminante. Grazie mille”.
Il “turco ideale” voleva sapere a chi ci si doveva rivolgere per segnalare un oppositore di Erdogan residente in Austria. Mercoledì, il telegiornale della televisione pubblica tedesca dava a sua volta la notizia una hotline appena creata alla quale i turchi in Germania possono rivolgersi per segnalare oppositori del presidente. Testata in diretta da una giornalista la hotline esiste davvero: a domanda se si poteva segnalare un oppositore di Erdogan in Germania, la risposta di una addetta al ministero dell’Interno è stata “sì”. L’ondata di solidarietà da parte dei turchi residenti all’estero già venerdì sera – quando il golpe era in corso, quando Erdogan ha chiesto ai suoi sostenitori di andare per le strade e denunciare il colpo di stato e mostrare la loro solidarietà al governo – davanti alle ambasciate di Vienna, Berlino e l’Aia preoccupa i governi e naturalmente l’Europa intera che si convince di non avere alternative a Erdogan ma si trova ogni giorno in un imbarazzo ulteriore: dopo aver sospeso, rimosso e arrestato migliaia di persone nell’esercito, nella magistratura, nelle scuole e nelle università, ieri la Turchia ha fatto sapere di voler temporaneamente derogare alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo – almeno finché è in vigore lo stato d’emergenza. Per di più la solidarietà a Erdogan nelle piazze europee non è sempre pacifica.
A Berlino, gli scontri tra curdi e turchi sono da sempre un problema, ma il fatto che ora ci possa essere anche la caccia ai simpatizzanti del predicatore Fethullah Gülen – l’acerrimo nemico del presidente riparato negli Stati Uniti e indicato da Erdogan come il mandante del golpe fallito – rende la situazione ancora più pericolosa, denuncia il sindacato della polizia federale tedesca. Anche la politica si mostra preoccupata dell’emancipazione politica dei turchi che vivono in Germania. E non solo per le reazioni in seguito al putsch fallito. Anche la recente risoluzione approvata dal Bundestag, nella quale si definisce il massacro del 1915 degli armeni per mano turca “genocidio” ha dato vita in Germania a grandi manifestazioni di protesta.
Un assaggio di quel che potrebbe accadere prossimamente si è già visto in Germania nei giorni scorsi. Vetrine di negozi appartenenti a curdi o a oppositori di Erdogan andate in frantumi; battage sui social media contro gli esercizi dei “traditori” oppure, al contrario, come mostrano le foto pubblicate dal tabloid Bild-Zeitung: cartelli affissi sui negozi turchi che intimano ai simpatizzanti di Gülen e ai “traditori” di non mettervi piede. Infine, a Gelsenkirchen nel Nordrhein-Westfalen, ma così è avvenuto anche in alcune città d’Olanda, sono stati presi a sassate caffè e sedi di seguaci (o supposti tali) di Gülen.
“Un certo disagio”
Le forze di polizia intervengono quando ci sono aggressioni a persone o danni, la politica invece si dibatte ancora nella ricerca di una risposta appropriata senza che questa pregiudichi i rapporti con Ankara. Il ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz ha fatto chiamare l’ambasciatore turco a Vienna; la cancelliera tedesca Angela Merkel insiste sul rispetto delle regole democratiche; Martin Schulz fa sapere che la pena di morte è incompatibile con un eventuale futuro status di membro dell’Ue, ma nessuno pare voler ricorrere a contromisure radicali per quel che sta avvenendo in Turchia: Eppure il fatto che nel cuore dell’Europa, su una piazza non qualunque, ma il Heldenplatz, quasi duemila turchi abbiano scandito ripetutamente “Allah è grande” dovrebbe far riflettere.
Il cancelliere socialdemocratico Christian Kern alla radio austriaca ha detto: “Non si può non provare un certo disagio quando motivazioni politiche si mischiano a motivazioni religiose” sottolineando poi che commistioni simili non appartengono in alcun modo alla cultura politica del paese. La Corte costituzionale austriaca sta esaminando un esposto che denuncia le manifestazioni turche a Vienna di sabato e domenica, perché non autorizzate ufficialmente. Ma parole e ricorso alla Corte danno l’idea di voler mettere una toppa piuttosto che rispondere adeguatamente a quello che la reazione dei turchi ha messo in luce. E cioè, per usare le parole del ministro dell’Interno austriaco Wolfgang Sobotka: “Sfruttare la libertà di manifestare per importare surrettiziamente un modo di vedere turco in Austria”.
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