Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/07/23016, a pag. 24, con il titolo "Gesti coraggiosi dei musulmani per sconfiggere il terrorismo", la lettera di Luigi Manconi, Presidente della Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani, e la risposta di Sumaya Abdel Qader, Consigliera comunale PD di Milano.
E' chiaro che le responsabilità sono sempre individuali, ma è altrettanto innegabile che le azioni dei terroristi islamici non nascono da menti malate o da "lupi solitari", ma da un ambiente, quello delle comunità islamiche, che favorisce l'esprimersi dell'estremismo fondamentalista e intollerante, e da una ideologia che è incapace di dividere religione e politica.
I crimini dei terroristi islamici, diversamente da quanto afferma Sumaya Abdel Qader (non a caso vicina al movimento della Fratellanza Musulmana, che si pone l'obiettivo della creazione del Califfato e dell'imposizione della sharia), hanno a che vedere con l'islam. Le comunità islamiche condannano il terrorismo? L'islam è una religione di pace che nulla ha a che fare con l'estremismo? Ebbene, che i musulmani lo dimostrino. Fino a che non lo faranno, le parole di Sumaya Abdel Qader saranno, appunto, soltanto parole.
Islam significa pace?
Ecco la lettera di Luigi Manconi:
Luigi Manconi
Gentile Sumaya Abdel Qader, lo scorso 5 luglio, su suo invito, ho partecipato alla cerimonia di chiusura del mese del Ramadan all’Arena di Milano. Con me c’erano don Giampiero Alberti, in rappresentanza dell’Arcivescovo di Milano, la vicesindaco Anna Scavuzzo, e il giornalista Gad Lerner. In quella circostanza lei, appena eletta consigliere comunale di quella città, ha pronunciato parole di netta condanna del terrorismo islamista e di incondizionata solidarietà per le vittime dell’attentato di Dacca.
E allora, all’indomani della strage di Nizza, già questo potrebbe indurla a domandarsi: «Perché mai, ancora una volta, tornare sul tema dello jihadismo, quasi dovessi scontare periodicamente la colpa di un’appartenenza religiosa e dare costanti prove di lealtà? Come se io e chi professa la mia stessa fede dovessimo vivere in una condizione di perenne sospetto e quotidianamente smentirla, assumendo sempre l’onere della prova». In qualche modo, e dolorosamente, è proprio così.
E questo, come ha scritto in ultimo Vittorio Emanuele Parsi «non perché i musulmani debbano fornire una “prova speciale” della loro fedeltà ma perché solo grazie al loro aiuto potremo, prima o poi, sconfiggere il mostro del terrorismo islamista». Insomma, a prescindere dalle convinzioni e dalle intenzioni di ciascuno di noi, penso anch’io che si debba offrire e chiedere di più ai musulmani che vivono in Italia. È duro, ovviamente, può apparire pretestuoso e, per certi versi, addirittura offensivo per tanti che professano sinceramente la fede musulmana, pienamente integrati e rispettosi dello stato di diritto: ma ci troviamo in una condizione d’eccezione, che pretende scelte (in questo caso politiche) altrettanto eccezionali. Se, dunque, è comprensibile la reazione di chi si chiede perché mai debba prendere le distanze dall’attentatore di Nizza («cosa mai ho in comune con lui perché me ne debba distinguere?»), ciò nonostante quella dichiarazione di totale estraneità si rivela necessaria.
Quell’unico tratto di affinità — l’adesione alla medesima confessione religiosa — è diventato un fattore dirompente e discriminante al punto da imporre a tutti di differenziarsi. In altri termini, si tratta di riconoscere che siamo, tutti, sulla difensiva e che alcune scelte sono imposte da circostanze ostili. Come sempre è accaduto, il terrorismo limita le libertà individuali e collettive e restringe gli spazi di autonomia. Insomma, è una fase, questa, che impone grande senso di responsabilità e scelte mature, che tengano conto dei rapporti di forza e della mentalità diffusa, degli allarmi sociali e degli stereotipi dominanti. Tutto ciò richiede intelligenza e gesti anche coraggiosi. Sono certo che i musulmani italiani sapranno compierli.
Ecco la risposta di Sumaya Abdel Qader:
Sumaya Abdel Qader
Caro Senatore, ritengo che chi accusa i musulmani di non dire e di non fare abbastanza o è in cattiva fede o vive una condizione di preoccupazione/paura per cui ha bisogno di essere rassicurato. Sui primi c’è poco da aggiungere, ma sicuramente molto da lavorare. Verso chi vive in uno stato d’ansia, invece, penso che sia giusto che i musulmani continuino a ripetere, e ancora a ripetere, le loro posizioni di condanna e presa di distanza. Perché? Perché le persone esprimono un bisogno primario di sicurezza. Perché dopotutto quei criminali sono musulmani, e ai cittadini bisogna trasmettere messaggi inequivocabili.
Certo, comprendo il discorso di chi, tra i musulmani, dice che «i terroristi non hanno a che fare con l’Islam, non sono musulmani»; in principio, lo ribadivo anche io ma ho capito che non è recepito da molti. Per chi ha conoscenza dell’Islam è ovvio che quei criminali non hanno a che fare col messaggio equilibrato di questa religione, ma per chi l’Islam non lo conosce non è affatto scontato. Il terrorismo che subiamo tutti è messo in atto da criminali musulmani che per motivi politici o economici e per tradimento del messaggio dell’Islam cercano di cambiare l’ordine geopolitico ed economico mondiale. Sono dunque musulmani delinquenti che vanno riconosciuti come tali. Anzi, riconoscere e definire bene il nemico aiuta a individuarlo meglio e combatterlo con gli strumenti più adeguati. Per questo sono utili da parte dei musulmani tutte le proposte volte a isolare la radicalizzazione religiosa, specie dei più fragili. Il momento storico chiede uno sforzo in più. Anche per superare un profondo deficit di comunicazione. Cosa fare, dunque?
1- Dare seguito alla proposta delle traduzioni dei sermoni in italiano o del sermone direttamente in italiano (si vedano le esperienze del Coordinamento delle associazioni islamiche a Milano che rende disponibili i sermoni tradotti anche su YouTube, e di Torino, Cuneo, Ravenna, Firenze, Perugia, Colle Val d’Elsa, Brescia, Napoli, Roma ...).
2- Obiettivo culturale fondamentale è il superamento del meccanismo «noi/voi». Ovvero la contabilità dei morti («i nostri»,«i vostri»). Tutte le morti valgono ugualmente. Tutti siamo vittime del terrorismo. Bisogna considerarci un unico noi allargato che insieme rifiuta e contrasta lo jihadismo.
3- Infine è necessario abbandonare le tifoserie da stadio che rivendicano identità in contrapposizione, e invece è urgente trovare luoghi di incontro e scambio. Conoscenza e convivialità. Le moschee, le parrocchie, le librerie, le piazze, e altri luoghi vanno riempiti di iniziative finalizzate a questo intento. La comunicazione diretta ed il contatto umano creano ponti, legami e relazioni forti che rendono più vitale la coesione sociale e la convivenza. Da qui si deve partire.
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