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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.07.2016 Turchia: repressione ed epurazioni di massa, scatta l'ora della legge islamica
Paolo Levi intervista lo scrittore turco Nedim Gursel; analisi di Pierluigi Battista, Sara Gandolfi

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Paolo Levi - Pierluigi Battista - Sara Gandolfi
Titolo: «'Questi sono i metodi sovietici' - Quei soldati messi alla gogna: quando il potere umilia gli sconfitti - La grande paura delle turche laiche: 'La legge islamica sempre più vicina'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/07/2016, a pag. 3, con il titolo "Questi sono i metodi sovietici", l'intervista di Paolo Levi a Nedim Gursel, scrittore turco docente alla Sorbona di Parigi; dal  CORRIERE della SERA, a pag. 1-8, con il titolo "Quei soldati messi alla gogna: quando il potere umilia gli sconfitti", l'analisi di Pierluigi Battista; a pag. 9, con il titolo "La grande paura delle turche laiche: 'La legge islamica sempre più vicina' ", l'analisi di Sara Gandolfi.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Paolo Levi: "Questi sono i metodi sovietici"

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Paolo Levi

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Nedim Gursel

«Se lo Stato di diritto non verrà rispettato, se i processi verranno controllati dal governo allora potremmo paragonare l’attuale situazione in Turchia alle purghe staliniane». Nedim Gursel è uno dei massimi scrittori turchi contemporanei, insieme con Orhan Pamuk e Yasar Kemal. Fuggito dal suo Paese dopo il colpo di Stato del 1980 si è trasferito a Parigi per insegnare letteratura turca alla Sorbona. Il suo ultimo libro, «L’angelo Rosso», è stato pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie.

Gursel, cosa accade in Turchia?
«Oggi nel mio Paese non c’è più una chiara separazione dei poteri, esecutivo, legislativo, giudiziario. Continuo a sperare che tutti i processi possano avvenire nel quadro della legge ma sinceramente ho poca fiducia in questa giustizia che sembra direttamente rispondere alle volontà del presidente Erdogan. In questo quadro non possiamo più parlare di stato di diritto e democrazia».

Tornerà in Turchia?
«Avevo già il biglietto per l’estate, tutto annullato, vediamo come evolve la situazione. Sono molto preoccupato».

Era per il colpo di Stato?
«Macché, il fallimento del golpe è un bene. E glielo dice uno che gli ha vissuti tutti, dal 1961, all’epoca avevo nove anni, sono sempre stato contrario, a pensarci bene tutta la mia vita è stata segnata dall’amarezza di una sorta di colpo di stato permanente, pensavo fosse finita e invece no, hanno tentato ancora. Ma quello che accade oggi è orribile. Erdogan esce più che rafforzato da questa situazione per lui ideale: ora potrà realizzare il suo grande sogno di un sistema presidenziale e un parlamento su misura».

È giusto parlare di purghe?
«Trovo che questa parola descriva benissimo la situazione drammatica in cui si trova il mio Paese. Dopo l’esercito è il turno dei magistrati, incluso della corte costituzionale».

E gli universitari?
«Se le prenderà anche con loro. Non mi sorprende ed è gravissimo. Dopo il colpo di Stato il governo può usare argomenti fortissimi per eliminare tutti gli oppositori».

Hanno chiesto l’allontanamento di centinaia di Imam legati a Fetullah Gulem.
«E pensare che quei due erano alleati, camminavano mano nella mano. Erdogan parlando di Gulen una volta disse: “Gli abbiamo dato tutto quello che ci ha chiesto”. Dopo c’è stata una lotta per la condivisione della torta e ora sono diventati fratelli nemici. Insomma, assistiamo a una sorta di guerra degli Imam, e quel 30% come me che sogna una turchia laica, europea, democratica, stiamo a guardare».

L’Europa ha sbagliato a bloccare i negoziati della Turchia?
«Sono sempre stato un fervente sostenitore dell’adesione all’Ue, purtroppo Sarkozy ha pronunciato un discorso che ha offeso i turchi e anche la Turchia non ha fatto le riforme necessarie. Che peccato».

CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista: "Quei soldati messi alla gogna: quando il potere umilia gli sconfitti"

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Pierluigi Battista

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Soldati turchi linciati dalla folla dopo il golpe fallito

Quei corpi ammassati e denudati di ufficiali puniti da Erdogan perché considerati golpisti. Chepoi forse non è neanchevero che lo siano stati.Chissà. Un autocrate non habisogno di prove, comein uno Stato dove prevaleil diritto, per schiacciareil suo popolo con il pugnodi ferro e per inventarsicolpe mai commesseeppure da espiare comesegno di feroce vendetta,di spietata rappresaglia. Però, se si pensava che il rito dell’umiliazione sul vinto fosse oramai un residuo arcaico liquidato dalla modernità, il ricordo di un passato buio, tramontato come quello strumento di materiale sevizia, quella composizione oscena di ceppi di legno con tre buchi e chiusi come una cerniera attorno al collo del reprobo chiamata «gogna», dobbiamo purtroppo ricrederci. Perché la gogna oggi si fissa in un’immagine, una foto, un video, un selfie, di sopraffazione esibita.

Nel calpestare la dignità dello sconfitto. E troppo di frequente: nella Bosnia martoriata dalle milizie dei carnefici serbi con quelle colonne di esseri umani oramai diventati scheletri semoventi. Nell’Iraq in cui i «liberatori» hanno sottoposto il dittatore Saddam Hussein all’umiliazione di un prigioniero ispezionato, violato, deriso. A Donetsk dove i separatisti filorussi hanno fatto sfilare in catene i soldati ucraini lealisti, laceri, sporchi, sbeffeggiati e riempiti di sputi dalla popolazione aizzata dall’odio. Troppo, troppe volte. In Turchia adesso: un potere violento che fa dei corpi degli sconfitti tanti patetici manichini da dileggiare, impaurire, ostentare come monito e minaccia. Non è lo scempio dei cadaveri degli sconfitti raffigurato una volta per sempre dal corpo straziato di Ettore trascinato nella polvere da un furibondo Achille.

Non è quella escrescenza terrificante delle guerre in cui a piazzale Loreto hanno prima i potenti fascisti di allora esibito i partigiani impiccati, e poi come crudele legge del contrappasso, sono stati scempiati i corpi a testa in giù di Mussolini e di Claretta. E non è nemmeno una di quelle fotografie disgustose dell’Alabama dei primi decenni del Novecento in cui i bianchi orribili del Ku Klux Klan si felicitavano spudoratamente sotto i corpi dei due neri che penzolavano senza vita dal ramo di un albero. No, qui sono corpi vivi e però umiliati, messi in mostra, esibiti, portati sul palcoscenico per essere esposti al pubblico ludibrio. Il rito dell’umiliazione di un pugno di soldati americani senza onore che nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq, si divertivano a mostrare i prigionieri terrorizzati, nudi, ammucchiati in pose degradanti, con un cane lupo che abbaiava per vedere i prigionieri paralizzati dal panico. Il rito della degradazione pubblica che in quello stesso Iraq, ma stavolta sotto il tallone d’acciaio di un dittatore sanguinario come Saddam Hussein, fu messo televisivamente in scena durante una riunione del gruppo dirigente del partito Baath quando i «traditori» presunti venivano chiamati uno ad uno ad alzarsi sotto lo sguardo severo del despota e farsi trascinare nella più vicina prigione per essere giustiziati senza processo.

Il potere che umilia, calpesta, priva di dignità chi deve subire in silenzio la gogna e l’umiliazione. Come quelle migliaia e migliaia di «borghesi», professori, intellettuali, maestri, musicisti, costretti a sfilare durante la Rivoluzione culturale in Cina con cartelli appesi al collo e in testa un cappello con le lunghe orecchie da somaro, mentre nugoli di Guardie Rosse fanatizzate e sotto il comando degli alti papaveri del partito maoista insultavano le loro vittime. Come i controllori del campo di internamento di Coltano a pochi chilometri da Pisa che dopo il 25 aprile tennero segregato in una «gabbia del gorilla», esposto come un «animale nello zoo» scrisse una volta Truman Capote, il poeta Ezra Pound, reo di aver tradito la patria americana sostenendo alla radio l’azione del nemico Mussolini. Come gli ufficiali giapponesi, proprio loro che avevano trattato con una brutalità inimmaginabile i loro prigionieri, che venivano fotografati e immortalati mentre l’imperatore, spogliato dei suoi attributi divini, annunciava la resa disonorevole per il suo popolo. Come i processi farsa dell’epoca di Stalin in cui gli imputati torturati confessavano i delitti più inverosimili.

Residui arcaici, tracce di un passato che nell’antichità contemplava la gogna dei prigionieri costretti a sfilare sotto il giogo, faceva pronunciare lo spietato «Guai ai vinti», costringeva gli sconfitti a trascinarsi nell’orrore delle forche caudine. La lettera scarlatta del disonore, la colonna infame del linciaggio. Purtroppo ancora attuale. A Istanbul, adesso. In Italia quando le Brigate Rosse esibivano le immagini dei prigionieri umiliati, Taliercio, Moro, Roberto Peci ammazzato per punire attraverso di lui il fratello «pentito». Il rito dell’umiliazione, della degradazione, l’ultimo sigillo di un potere spietato e senza controlli.

CORRIERE della SERA - Sara Gandolfi: "La grande paura delle turche laiche: 'La legge islamica sempre più vicina' "

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Sara Gandolfi

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Alle sette di sera, su Istiklâl Caddesi, i top e le minigonne scompaiono. Da venerdì notte, sulla via dello struscio di Istanbul, e poi su fino a piazza Taksim, cuore passionale della città, vige una legge non scritta che le donne hanno imparato in fretta a rispettare. Dopo una certa ora, meglio girare con braccia e gambe coperte, magari pure con un velo a mascherare collo e capelli. La notte è del popolo di Erdogan, che resta sveglio fino a tardi, cantando inni patriottici e inneggiando alla pena di morte. «All’inizio siamo usciti anche noi, i “turchi bianchi”, così chiamano noi laici — racconta Alya, commessa in un negozio “occidentale” —.

In fondo, meglio una cattiva democrazia di una dittatura militare. Ma ora le cose stanno prendendo una brutta piega, soprattutto per noi donne. Da sabato vengo al lavoro con meno pelle in vista». A pochi metri, sfila il fervore religioso dei sostenitori dell’Akp, il partito del presidente. Sono quasi tutti maschi, effetto branco. Nell’atmosfera surreale del dopo golpe, si presentano come combriccole festose, ma potrebbero diventare altro. Su Twitter girano storie di avvertimenti e minacce. Una giovane racconta che qualcuno le ha urlato da un’auto: «Uccideremo anche quelle come voi». Il pericolo è nell’aria. Lo confermano gli sguardi sconcertati delle passanti «laiche» e le parole di alcune donne coraggiose.

Come l’avvocatessa Ceren Akkawa, volontaria di «Mor çati», prima Ong turca contro la violenza sulle donne: «Sulla carta la Turchia ha una legislazione molto avanzata sulla parità di genere ed è il primo Paese firmatario della Convenzione di Istanbul (contro la violenza sulle donne, ndr ) — dice —, ma nelle strade, nelle stazioni di polizia, nei tribunali, la prassi è di tutt’altro tipo. Da almeno quattro anni il governo spinge verso un conservatorismo sempre più marcato: la legge islamica si avvicina ogni giorno di più». Il Sultano Erdogan non ha mai fatto mistero delle sue opinioni sul ruolo della donna, dal numero dei figli che dovrebbe avere (3) al tipo di impiego, «non è uguale all’uomo, non può fare lo stesso lavoro». Uno dei primi decreti è stato il via libera al turban in scuole e uffici pubblici (il velo islamico turco, che copre il capo ma lascia scoperto il volto, era vietato dal 1924 per volere di Atatürk). Le islamiche, o «turche nere», sono uscite poco alla volta: non solo in strada, ma pure nelle aule universitarie e in quelle giudiziarie. Con le purghe, sussurra qualcuno, sarà anche peggio.

«Ormai sono maggioranza — dice Akkawa —. E tante donne oggi mettono il velo perché è socialmente più “comodo”. Io stessa mi sono accorta che sto cominciando ad autocensurarmi nel modo di vestire». Poi è venuto l’attacco alla legge sull’aborto: «un omicidio», disse Erdogan nel 2013. Non riuscì a renderlo illegale, ma da allora si sono moltiplicati i medici «obiettori»: ad Istanbul solo tre ospedali lo praticano. Tra le proposte avanzate dalla «Commissione parlamentare sul divorzio», c’è la depenalizzazione dell’abuso sessuale sui minori se viene seguito da cinque anni di matrimonio «sotto controllo governativo». Ufficialmente un modo per condonare le «fuitine», ancora molto diffuse nelle zone rurali. «È disgustoso, incoraggiano i matrimoni forzati delle bambine», commenta Ayse Arman, editorialista del quotidiano Hurriyet .

«Vogliono infilare le vittime di violenza nello stesso letto dello stupratore. Non è degno della Turchia contemporanea», le fa eco la femminista Canan Güllü. Di fatto, nella prassi è già così: secondo fonti giudiziarie, sono 3.000 i casi di stupratori che hanno evitato il carcere sposando le proprie vittime. Di recente, poi, la Corte costituzionale ha abolito l’articolo 103 che punisce gli abusi sessuali sui minori, sostenendo che la punizione per i reati sui bambini fra i 12 e i 15 anni non può essere uguale a quella che coinvolge gli under 12. I legislatori hanno tempo sei mesi per riformulare la legge, dopodiché si creerà un vuoto legislativo. E la pedofilia sarà, di fatto, legale in Turchia.

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