Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/07/2016, a pag. 8, con il titolo "Il giallo dei 100mila euro spediti dal killer alla famiglia in Tunisia", la cronaca di Marco Menduni; con il titolo "Il padre, un estremista maghrebino che ha allevato i figli a pane e jihad", la cronaca di Massimo Numa; dal CORRIERE della SERA, a pag. 41, con il titolo "Il 'depresso' di Nizza e i fanatici dell'Apocalisse", il commento di Pierluigi Battista.
A destra: la Francia si immola con il "politicamente corretto"
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Marco Menduni: "Il giallo dei 100mila euro spediti dal killer alla famiglia in Tunisia"
Il killer di Nizza
Una fortuna, un sacco di soldi in contanti». Racconta proprio così, uno dei fratelli di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, il massacratore di Nizza.
Vive in Tunisia e quantifica la somma: 100 mila euro. Li ha ricevuti, da Bouhlel, pochi giorni prima della strage. Per i superpoliziotti seduti nei loro uffici della Caserne d’Auvare, il quartier generale della polizia nizzarda, non è una sorpresa. Qualcuno ha avvicinato il terrorista, l’ha esaltato e stordito, facendogli balenare il sogno del riscatto da una vita modesta con un’azione eclatante. Nessuno l’avrebbe mai dimenticata. Un pressing su quella mente confusa, ricompensato persino dai dei soldi, tanti. Con quelli, avrebbe sistemato la sua famiglia in patria. Un emissario del Califfato islamico, arrivato a Nizza qualche settimana fa, ha coordinato l’operazione, ma Bouhlel era già il candidato, il prescelto.
La radicalizzazione
Non più di un mese di lavaggio del cervello. Quella «radicalizzazione rapida» di cui parla il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve. L’intelligence lavora su una pista: un piano ideato da Moez Fezzani, detenuto a Guantanamo, poi in Italia, infine riparato in Libia, autore del video di propaganda jihadista con cui l’Isis ha rivendicato il massacro di Bruxelles, sospettato di esser coinvolto nella strage del Museo del Bardo in Egitto e nel sequestro di quattro operai italiani in Libia.
E’ una grossa cifra, quella spedita al fratello da Bouhlel, inconciliabile con otto anni di lavoro a mille euro al mese, una famiglia con tre figli da mantenere. Inconciliabile con la descrizione che ne fa chi lo conosceva: al verde, disperato per la sua situazione economica, ormai rovinato dopo la separazione. Gli incontri decisivi avvengono all’Ariane, il quartiere dove il massacratore si era trasferito da pochissimo tempo, attirato nella trappola di una delle banlieue più radicalizzate. Non è stato solo, nella preparazione e nella realizzazione dell’attentato. Si disfa dei suoi averi. Vende la macchina, svuota il conto in banca. Il 6 luglio un acquisto on-line da 24 euro, annotato con la voce “Islam”. Va pure a saldare la retta scolastica dei tre figli. Il 4 luglio prenota il camion poi utilizzato come arma contro la folla. L’11 lo ritira, il 12 e il 13 viene ripreso dalle telecamere mentre fa due sopralluoghi. Arriva il 14 e poche ore prima il killer è già lì, tra la folla che festeggia la Repubblica. Invia una foto al fratello Jabeur, che racconta: «Ha detto che era a Nizza con i suoi amici europei per celebrare la festa nazionale. Era molto felice e contento, rideva».
I messaggi al telefono
Invece sta per scattare il piano folle. Bouhlel si dirige verso il camion. Sono le 22.27 quando inizia uno scambio di sms. Scrive al suo interlocutore di essere contento per la 7.65 che gli ha procurato, ma servono ancora armi, «almeno altre 5 armi». La risposta: «Armi trovate, consegnare – 5»: gli verranno portate in meno di 5 minuti. Lui risponde: «Ora ho l’attrezzatura». Ma sono quasi tutte armi finte. Un’altra semiautomatica che è poco più di un giocattolo, due repliche di fucili d’assalto, kalashnikov e M16 finti anch’essi, una granata che non può esplodere. Il dubbio degli inquirenti è che anche Bouhlel sia stato beffato: per non fermarlo, per non correre il rischio di ripensamenti, gli è stata consegnata una partita di armi inefficaci. I proprietari dell’arma? Due coniugi albanesi, fermati. Ma in realtà il corriere è una terza persona, che ha fatto da collegamento. Viene fermato anche lui. A sera, dopo che la moglie del terrorista è stata rilasciata,il conto si ferma a 7. E questi sette fermati sono stati trasferiti nei locali dell’antiterrorismo di Levallois-Perret, alle porte di Parigi.
LA STAMPA - Massimo Numa: "Il padre, un estremista maghrebino che ha allevato i figli a pane e jihad"
Massimo Numa
Cresciuto a pane e jihad. Mohamed Lahouajej Bouhlel, 31 anni, il camionista assassino di Nizza, originario di Mseken, in Tunisia, era figlio di un noto estremista islamico che fa parte del partito islamico Ennahda, che, rispetto ai vecchi gruppi combattenti salafiti, radicati da sempre nel distretto di Sousse, sta come il Sinn Fein all’Ira. C’è un filo rosso che unisce i terroristi di oggi, di seconda o terza generazione (come i cittadini inglesi di origine pakistana che fecero saltare nel luglio 2006 il metro di Londra), con i fanatici coinvolti nelle vecchie inchieste sui Gruppi Salafiti di Combattimento, germinati negli Anni 80 e 90 fra Tunisia e Algeria, e altri gruppi minori poi diffusi nel Sud della Francia e pure in Italia. Nella sua comunità Mohamed è già un «martyr». Lo seppelliranno presto nel suo paese, non lontano dalla spiaggia dove un commando Isis trucidò decine di turisti, in un clima di complicità e di rispetto per il suo «sacrificio». Nato e vissuto «in un contesto familiare - osserva il sito tunisino TunisieSecret.com - favorevole alla violenza e al radicalismo». In un continuo interscambio di contatti e coperture.
Questi assassini-suicidi sono figli, fratelli o amici delle famiglie dei terroristi attivi dieci o vent’anni fa. In percentuale altissima. Scorrendo le pagine degli atti giudiziari dell’epoca emergono fantasmi dimenticati. Allora il brand era quello di Al Qaeda, oggi il faro è il Califfato. Ma il bacino di reclutamento è lo stesso. Sigle dimenticate: il Gia, Gruppo Salafiti per la predicazione e il combattimento, con i suoi cloni diffusi in Italia, Tunisia, Marocco e nel Corno d’Africa. Il Gspc, tra il ’95 e il 2008 predicava l’odio contro l’Occidente ma soprattutto contro la Francia. A Milano fu catturato il pianificatore degli attentati di Madrid del marzo 2004, con decine di morti. A Torino la Digos fermò l’uomo che con i camion-bomba aveva fatto saltare le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. Gli investigatori della ex Ucigos (ora Dcpp, Direzione centrale polizia di prevenzione) e i colleghi francesi scoprirono solo una parte delle rete logistica. Solo una percentuale era stata oggetto di arresti o semplicemente di un censimento uomo per uomo. In quelle case si respirava l’odio religioso e l’odio anti-francese. I loro ragazzi vanno a scuola, istruiti a non far trapelare nulla della loro formazione, a proteggere dalla polizia familiari e amici ricercati o in fuga.
I profili degli attentatori belgi e francesi sono straordinariamente simili. Anonimi, invisibili, indecifrabili attraverso un’attività routinaria di Intelligence. Da qui lo stupore dei media (se non degli inquirenti) per le loro vite normali o contraddittorie rispetto agli stereotipi del radicalismo. Vanno in discoteca, non osservano il Ramadan, hanno pure precedenti per piccoli reati, vestono e vivono come i loro coetanei, bevono alcol e altro ancora. Chi ricorda, oggi, il nome di Khaled Kelkal? Ucciso a Lione dalla polizia, aveva fatto esplodere una bomba artigianale nel luglio 1995 in una stazione ferroviaria a Saint Michel. Dieci morti e decine di feriti. Dice il questore Giuseppe Petronzi, ex capo della Digos: «Attenzione a non categorizzare in modo rigido gli ultimi episodi, dagli Usa alla Turchia, ma i collegamenti col passato ci sono, vanno interpretati alla luce dei continui cambiamenti».
Nel marzo 2012 il primo atto della «guerra per tutti». Quella di oggi. Senza logistica, quasi a costo zero, senza pietà. Mohammed Merah, 24 anni, rapper ma radicale islamico undercover, indottrinato anche in famiglia, fa irruzione nella scuola ebraica Eleves Ozah Hatorah di Tolosa e uccide un maestro e tre bambini. Tante stragi, lo stesso rituale: i video di auto-presentazione sui siti Isis, ma anche foto su Facebook di assassini con la maglia dei campioni di calcio, le sere in discoteca, la passione per auto o moto, i «mi piace» sui profili Fb di star della musica o del cinema. Le interviste del dopo-strage, ad amici, familiari e conoscenti, iniziano, molto spesso, così: «No, non avremmo mai pensato...».
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista: "Il 'depresso' di Nizza e i fanatici dell'Apocalisse"
Pierluigi Battista
Da più parti, nei giornali e tra i commentatori solitamente più inclini a separare il terrorismo dalla sua matrice religiosa islamica, si sottolinea con malcelato sollievo che lo stragista jihadista di Nizza pare fosse un «depresso», un asociale, un folle insomma. Come se fosse più rassicurante attribuire la carneficina al gesto di uno psicopatico. Come se, soprattutto, una personalità disturbata, clinicamente incline alla depressione nientemeno, contribuisse ad annullare, o comunque a lasciar sbiadire, la matrice ideologico-religiosa di un atto terroristico così infame. Come se il fanatismo assoluto, la consacrazione di sé a una Causa santa che prevede il martirio e lo sradicamento del Male attraverso il sacrificio di innumerevoli esseri umani non fosse, appunto, una formidabile e sanguinaria risposta al banalissimo male di vivere, all’insignificanza della vita, al vuoto dell’esistenza, a un’umanità affamata di significati da servire con dedizione intransigente.
Come se nella storia i «fanatici dell’Apocalisse», come li definì il grande studioso Norman Cohn in un libro straordinario del 1957, The Pursuit of the Millennium , non abbiano ripetutamente trovato nei miti della rigenerazione apocalittica, nel febbrile millenarismo ideologico a sfondo religioso, un formidabile rimedio persino ai loro «problemi quotidiani». Erano tutti sani di mente, estranei a ogni forma di psicopatologia i forsennati seguaci di Pol Pot che svuotarono le città cambogiane per riempire i campi di sterminio in cui gli assassini invasati erano i bambini che uccidevano i loro genitori?
Il fanatismo islamista fornisce appunto il vocabolario cui attingono senza requie i «lupi solitari» che oggi vorremmo raccontare come se fossero tanti sociopatici somiglianti al Robert De Niro che in Taxi driver usciva di testa per purificare la città corrotta. Anzi, il «depresso» trova nel manicheismo estremo dello jihadismo un ricco repertorio di motivi per annientare le città peccaminose, punire gli infedeli, depurare il mondo da tutto lo sporco che impedisce la via della santità e della purezza e così trovare un senso mistico di appartenenza al partito dei puri e dei santi disposti a morire per guadagnare il vero paradiso. Una terapia efficacissima per la «depressione» dei singoli. E la storia dimostra che il fanatismo apocalittico ha richiamato a sé molti più pazienti di qualunque psichiatra.
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