Riprendiamo dalla DOMENICA del SOLE 24 ORE di oggi, 17/07/2016, a pag. 30, con il titolo "Il mito ebraico è in moto", la recensione di Giulio Busi.
Giulio Busi, Elena Loewenthal
Elena Loewenthal, Miti ebraici, Einaudi
Si sa che la morale non era il forte dei vecchi numi pagani. Tutte quelle scappatelle, le vergini rapite, le mogli tradite, i ragazzini sedotti e abbandonati non giovavano certo alla reputazione di Zeus e compagni. Né a quella delle Veneri e degli Apolli di turno, eccelsi abitatori d'Olimpo finché si vuole ma pur sempre divini sporcaccioni. Quando si trattò di far piazza pulita della religione antica, i venerandi padri della Chiesa ebbero vita facile. Con i flirt e gli innumerevoli adulteri che pesavano sulla loro coscienza, i protagonisti della mitologia classica si trovarono senza lavoro da un giorno all'altro. Bastò metterne alla berlina la vita scapestrata e la pochezza degli ideali familiari, ed ecco che il panteon greco e romano, prodigo di principesse rapite da tori e di pastorelle inseguite, concupite e trasformate in piante e in laghi, perse di credibilità e d'attrattiva.
Scacciato dagli altari dei templi, il mito fu costretto a cercare rifugio tra i bugiardi di professione. Letterati, sognatori, pittori - furono loro, per secoli, ad arrabattarsi con dei, dee, eroi sgualdrini e sgualdrine divinizzate. La nuova fede scelse di adornarsi di sobrietà, senza gli orpelli delle favole e i trucchi da postribolo. L'idea che il mito sia bello e bugiardo ha una storia lunga, antica di millenni e veneranda di conflitti.
Una religione accusa l'altra di bugie, le strappa le storie sacre come se fossero i capelli di una rivale odiata. Poi, però, ricomincia a raccontare. Parola dopo parola, un apologo che segue il precedente, il mormorio delle generazioni riprende il filo interrotto. Mito deriva dal greco mutheomai, che significa dire, nominare, dar ordine. Chi potrebbe mai smettere, di dire e di raccontare? E quale cultura saprebbe privarsi delle parole, che ammoniscono e consolano, che si sollevano dalla terra in cielo e poi discendono di nuovo, piano piano, come se fossero di neve leggera? Preso così, alla lettera, nel senso di racconto che s'intreccia al rito e alladevozione, il mito può scrollarsi di dosso gli antichi sospetti di paganesimo.
Ci sono miti cristiani e ci sono, naturalmente, miti ebraici. Più sobri di quelli, opulenti, di Atene e di Roma, meno lascivi, con minor orgoglio di dettagli, i miti di Israele hanno in compenso un ornamento prezioso. Sono semplici, carichi d'esperienza. Mica se ne stanno inerti in un libro, per venerando e autorevole che sia. Se la Bibbia non la leggete e rileggete, rischiate di non accorgervi che quelle storie di pastori caparbi, spose trascurate, figli smarriti e ritrovati sono in realtà miti, e della specie più fine. Sono cioè racconti sacri che, mentre li dite, "fanno" la fede. Convincono e ammaestrano, stupiscono e impauriscono.
Miti ebraici di Elena Loewenthal mette in pratica, brillantemente, la regola fondamentale di questo genere letterario, antico come il mondo. Un mito è tale solo se non rimane mai uguale a se stesso. Lo dovete raccontare di nuovo, con le vostre parole, magari cambiarlo, adattarlo, ricucirlo. Come si faceva un tempo coi vestiti, che passavano dai fratelli più grandi ai piccini, e a forza di aggiunte e tagli perdevano la forma originaria e si caricavano di affetto e di mistero. Loewenthal riscrive il racconto della creazione, la missione di Mosè, il viaggio di Elia verso il cielo. Sembrerebbe un lavoro fin troppo ambizioso, e invece è opera indispensabile, devota. Basta cambiare un accento, infilare una frase nuova, mettere un punto dove prima non c'era, lasciare che l'ebraico faccia capolino nella prosa italiana.
II caos e l'informità del Genesi s'increspano in un disordine mai visto, la luce dei primordi diviene più fioca di quanto ci aspettassimo, e anche il Dio distante dei primi versetti — quello che disse fu — si fa un po' più vicino. Il mito è come un flume che porti acqua fresca tra argini vecchi. Sappiamo dove trovarlo, e pure ci dona una forza rinnovata. La parte più bella del libro è quella dedicata alle spose. Sono diverse l'una dall'altra, queste donne ebree, vissute secoli fa, oppure non vissute mai, ma solo immaginate e narrate. C'è la saggia Berurya, maestra d'età talmudica, coltissima, silenziosa, ironica. C'è Lea, che sotto il baldacchino nuziale viene rapita da uno spirito dannato — una storia da far accapponare la pelle dallo spavento. E c'è una ragazza bellissima, che non ha un nome, triste come la più disgraziata principessa delle favole. Solo che la sua è una leggenda di distruzione e non di vita, e anziché a una strega, lei deve tener testa all'Angelo della morte in persona. Non aspettatevi un mito sboccato. La narrazione è essenziale, malinconica. Per tre volte, la bella ha perso il proprio sposo subito dopo le nozze. Alla quarta cerimonia, la maledizione si fa ancora più cupa, invincibile. Eppure basterebbe una parola, una goccia sola dal grande mare della Torah, e tutto sarebbe salvo. I miti sono bugiardi? Convincete l'Angelo della morte, se ne siete capaci.
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