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La Stampa Rassegna Stampa
17.07.2016 Turchia: cosa rimane del Paese che Ataturk voleva condurre verso modernità e laicità?
Cronaca di Paolo Crecchi

Testata: La Stampa
Data: 17 luglio 2016
Pagina: 2
Autore: Paolo Crecchi
Titolo: «A piazza Taksim le donne velate adesso gridano: 'Viva Allah'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/07/2016, a pag. 2, con il titolo "A piazza Taksim le donne velate adesso gridano: 'Viva Allah' ", la cronaca di Paolo Crecchi.

La descrizione di Paolo Crecchi è efficace nel dipingere il grado di islamizzazione cui è giunta ormai la Turchia. Resta ben poco, ormai, del Paese che Ataturk cercò di traghettare verso la modernità e il laicismo.

Ecco l'articolo:

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Paolo Crecchi

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Allah Akbar, cominciano a gridare al tramonto, Allahu Akbar, e sono donne velate di nero e ragazze in jeans, operai in canottiera e studenti, tassisti che hanno parcheggiato sui marciapiede e venditori di fermacapelli che abbandonano il chioschetto per unirsi al carosello. Piazza Taksim. Il cuore di Istanbul e l’anima della Turchia. Stanotte si sparava e si moriva e i ragazzi in divisa non erano diversi da questi che inneggiano a Dio e al presidente, Er-do-gan, Er-do-gan: molti di loro hanno detto che credevano fosse un’esercitazione, non un colpo di stato.

Un mare di bandiere rosse con la mezzaluna inonda Istanbul e quel che resta della battaglia, il sangue che non sono riusciti a cancellare dall’asfalto e gli elmetti abbandonati dai soldati assieme alle giberne e ai fucili mitragliatori. Ora che è quasi buio il primo ponte sul Bosforo è tornato sgombro, ma per ore ha rappresentato l’umiliazione dei militari. Un tappeto grigioverde incongruo, e offensivo per l’orgoglio di un Paese che alle forze armate ha sempre affidato la custodia della laicità.

Aeroporto Sabiha Gokcen, il secondo della capitale. Il golpe ha privilegiato il palcoscenico di quello principale intitolato ad Atatürk ma è fallito anche qui, lungo i viadotti che portano al terminal dei voli internazionali. Ci sono dodici tank messi di traverso sulla carreggiata. Non passa nessuno. I viaggiatori sono costretti ad arrancare tra schiere di poliziotti sudati e cumuli di bottigliette di plastica. Gli unici voli regolari dall’Italia e dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Germania, dalla Spagna, dagli Stati Uniti atterrano all’aeroporto Gokcen. Sotto gli occhi di migliaia di turisti sconcertati, la Turchia dei colonnelli rimanda al mondo intero l’immagine della propria disfatta.

Sera. In piazza Taksim i cortei si sono fatti fiumana, gli slogan sono diventati una sinfonia indistinta di fischi, urla, battimani, esortazioni a invocare il nome del presidente e della patria, «una, che appartiene al popolo, che il popolo difenderà fino alla morte».
Lungo i viadotti dell’autostrada che accompagna Istanbul dall’Asia all’Europa i tank sono parcheggiati come fossero Tir, però nessun posto di blocco rallenta il traffico di sempre. Anche il ponte più alto sul Bosforo è sgombro, sotto le sue arcate stanno passando una petroliera e una portacontainer vuota. Navigano verso il mar Nero.

Scivola via così il golpe in Turchia, con la tv che rimanda immagini di festa. Cortei di auto strombazzanti attorno allo stadio del Galatasaray, tra i grattacieli di acciaio e cristallo. Camioncini addobbati con la bandiera rossa e la mezzaluna che trasmettono musica nel verde dei parchi di Besiktas.

In piazza Taksim c’è la statua di bronzo di Mustafa Kemal Pascia, Atatürk, il padre dei turchi. Indossa l’uniforme militare ed è scortato da un ufficiale. Un soldato spinge un cannone. All’improvviso una voce femminile impugna un megafono e intona un canto struggente. In prima fila, donne in niqab fanno segno di sì con la testa e probabilmente, sotto il velo, sorridono contente.

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