Riprendiamo dal BOLLETTINO della Comunità ebraica di Milano di luglio 2016, a pag. 18-19, con il titolo "Il 'milione dimenticato': l'esodo silenzioso e dolente dai Paesi arabi", l'analisi di Vittorio Robiati Bendaud.
Vittorio Robiati Bendaud
Profughi ebrei dai Paesi arabi
Sono trascorse alcune decadi dalla fondazione nel 1948 del moderno Stato di Israele: un fatto unico e grandioso, ancora abbondantemente carico di attese e speranze. Assieme a quest’ultime, purtroppo, si accompagnano anche costanti inquietudini e paure. Contemporaneamente, il 1948 compare sulla pietra tombale della defunta civiltà “islamogiudaica” o “arabo-giudaica” come definitiva data di morte della stessa. A differenza, però, di quanto sostengono alcuni storici e politici faziosi, il 1948 non coincide assolutamente con l’inizio della fine di questa civiltà e con l’avvio di un dissidio altrimenti inedito tra mondo islamico e mondo ebraico.
Come ben messo in luce dallo storico Georges Bensoussan, il 1948 coincide drammaticamente con una svolta che accelera ed acuisce un processo di progressivo sradicamento che gli ebrei dei Paesi islamici subirono, talora con grandi sofferenze collettive e individuali, a partire dalla fine del secolo XVIII. Fu così che, ad esempio, il secolo XX vide l’annientamento di millenarie e gloriose Comunità nord-africane e mediorientali, contestualmente al nascere e al primo consolidarsi della ricostituita sovranità nazionale ebraica in Eretz Israel. Successivamente al 1948, gli ebrei della maggioranza dei Paesi islamici furono infatti costretti all’esilio e alla fuga da quei territori. Dopo le predicazioni devastanti del Mufti al-Husseini e dei suoi non pochi sodali, l’odio non era andato scemando ma, al contrario, riprese a montare.
Oggi, questi Paesi sono judenfrei (liberati dagli ebrei) o judenrein (ripuliti dagli ebrei), come voleva il lessico nazista: la presenza ebraica è stata cioè annientata e cancellata. Circa un milione di persone, nell’arco di vent’anni, è stato costretto ad abbandonare tutto: amici, scuole, case, cimiteri aviti, sinagoghe, ogni avere. È quello che alcuni ebrei sefarditi giustamente chiamano “il milione dimenticato”. Poche decadi separano la cancellazione delle due Koiné più importanti della storia ebraica: la Koiné ashkenazita (tedesco-russopolacca), totalmente annientata dalle vicende della Seconda Guerra Mondiale, e la Koiné dell’ebraismo in terra di Islàm, dal Marocco a Bukhara, dall’Iran allo Yemen. Su questa seconda storia è stato ampiamente gettato un velo di silenzio e di oblio, che tuttora perdura. Chi qui sta scrivendo, ritiene che molte responsabilità su tali silenzi ed oblii siano da attribuirsi a parte delle dirigenze ebraiche occidentali come pure a molta storiografia ebraica. La Shoah e la sua memoria, il procedere del conflitto “israelo-palestinese” e la sua narrazione, il fatto che la schiacciante preponderanza degli storici e dei dirigenti ebrei sia stata d’origine occidentale - come tali, anche involontariamente, ostinatamente “eurocentrici”, anche quando denunciano ossessivamente le responsabilità dell’Occidente - ha contribuito a mettere lungamente in sordina le storie drammatiche degli ebrei del Medioriente.
La popolazione ebraica in alcuni Paesi arabi-musulmani
Anche in Israele non è stata assolutamente né facile né scontata sino a tempi recenti l’integrazione e la mutua comprensione tra mondo ashkenazita e mondo sefardita orientale, e oggi circa metà della popolazione ebraica dello Stato è discendente degli esuli dai Paesi islamici. Chi scrive ritiene anche che sia invece proprio questa storia quella oggi fondamentale per comprendere - e far comprendere ad altri - meglio e con maggiore compiutezza, il conflitto arabo-israeliano. sfide, scenari futuri e angosciose ipoteche Il 7 agosto 2003, Amrozi bin Nurhasin, uno dei responsabili dell’attentato terroristico a Bali, comparve nell’aula di tribunale per la sentenza che lo vedeva responsabile della morte di circa 200 persone, tra cui nessun ebreo. Con i media di tutto il mondo che lo riprendevano, iniziò a urlare “Khaybar, Khaybar ya Yahud, Jaysh Muhammad sa ya’ud”, ossia “Ricordatevi della capitolazione dell’oasi ebraica di Khaybar in Arabia, o ebrei, l’esercito di Muhammad è tornato”.
Purtroppo si tratta di uno “slogan” assai celebre. Il 16 ottobre dello stesso anno questa frase venne scandita dal Primo Ministro malese Mahathir Mohamed, lo stesso che nel 1986 aveva istituito l’“Anti-Jews Day”, asserendo nel corso dei lavori del Tenth Islamic Summit Conference che “1,3 miliardi di musulmani non possono essere tenuti sotto scacco e sconfitti da una manciata di milioni di ebrei”. Il Movimento di Resistenza Islamica –Harakat al-Muqawama al-Islamiyya-, meglio conosciuto come Hamas, nella sua carta costitutiva riporta che il profeta dell’Islam Muhammad avrebbe detto: “Il giorno del Giudizio non giungerà sino a quando i musulmani non combatteranno gli ebrei (uccidendoli), mentre gli ebrei si nasconderanno dietro a pietre e alberi. Le pietre e gli alberi allora diranno: O musulmani, c’è dietro di me un ebreo, venite qui e uccidetelo”. Ciò ricordato, è doveroso ammettere che vi sono Paesi islamici che hanno dimostrato attitudini diverse rispetto a quanto riportato nei confronti del mondo ebraico e di Israele: si pensi al Marocco o anche, pur con mille evidenti contraddizioni e angosciose ipoteche, alla Turchia. Vi sono poi i rapporti estremamente ambivalenti, ma pur esistenti, con Egitto e Giordania. La grande “novità”, destinata a segnare il presente e ancor più il futuro, è il doppio processo di occidentalizzazione dell’Islam e di islamizzazione dell’Occidente. Pensare il futuro dell’ebraismo in Europa e i rapporti dell’Occidente –in primo luogo europeo- con Israele è un’angosciosa sfida, con un crescendo di difficoltà.
Indipendentemente dal fatto che si avverta e si legga tutto questo come un’opportunità o come un ulteriore elemento di paura –laddove entrambe le prospettive sono legittime, e nessuna delle due dovrebbe escludere completamente l’altra-, resta il fatto che oscure ipoteche gravano pesantemente sul presente e sul futuro. Tali ipoteche devono necessariamente essere assunte. il nuovo odio e le trappole del presente Così ebbe a scrivere Rav Giuseppe Laras in un suo epocale messaggio in occasione di Rosh ha-Shanah 5776: “L’Europa in cui viviamo sta cambiando radicalmente e rapidamente. Le sue demografie religiose – e dunque, di riflesso, le sue democrazie- sono soggette a una svolta epocale, per cui progressivamente nulla sarà più uguale a prima. Ben inteso: questo sta accadendo già da alcuni decenni, prima - cioè- dell’ultima drammatica ondata migratoria.” E ancora: “La demonizzazione, la riduzione a radice di tutti i mali, la metafora medicale che vede in Israele e negli ebrei “cancro” e “contagio”, sono versioni nuove di discorsi antisemiti vecchi e ben conosciuti. L’Islàm politico purtroppo ha fatto di tutto ciò - e da decenni- uno dei suoi principali cavalli di battaglia ideologici, come pure un cavallo di Troia nelle coscienze - già malate o molto deboli- di alcuni europei affetti da sensi di colpa collettivi o da sentimenti antisemiti mai sopiti. Le modificazioni demografiche a cui stiamo assistendo, che nel futuro saranno sempre più rilevanti, proiettano dunque su di noi spettri i cui veleni mortiferi sono già dilagati in altri Paesi di Europa, Francia e Belgio in primis.
Si potrebbe anche utilmente indirizzare l’analisi sulle insidiose politiche - ahimè “democratiche”- di boicottaggio e sul discredito morale e culturale crescente nei confronti degli israeliani e degli ebrei. In questo senso, all’ebraismo europeo probabilmente verranno chiesti, con sempre maggior odiosa insistenza, certificati di moralità, insinuati nuovi screening sulla “doppia fedeltà” o “doppia identità” degli ebrei europei, richieste di una presa di distanza radicale da Israele e dagli israeliani. La storia ci insegna in maniera inequivocabile che gli antisemiti non distinguono tra ebreo assimilato o religioso, tra ebreo della diaspora o israeliano. Tutto questo in una generale rarefazione della presenza ebraica in Europa. E noi sappiamo che il peggiore antisemitismo è quello che si sviluppa e si alimenta in assenza degli ebrei. Per dirla con le parole di un intellettuale come Raymond Aron: “Il fenomeno decisivo è quello rappresentato dalle forme di odio astratto, l’odio per qualcosa che non si conosce e sul quale vengono proiettate tutte le riserve di odio che gli uomini sembrano possedere nel fondo di loro stessi”.
Recentemente, Rav Jonathan Sacks ha dichiarato che “senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito”, sottolineando inoltre che gli immigrati NON saranno integrati in Europa “perché quando una cultura perde la memoria perde l’identità e quando una cultura perde l’identità non c’è niente in cui integrare le persone”. Sacks ha poi mirabilmente aggiunto che “l’estrema destra cerca un ritorno a un passato d’oro che non c’è mai stato. L’estrema sinistra cerca un futuro utopico che non sarà mai. Gli estremisti religiosi credono che si può portare la salvezza con il terrore. I secolaristi aggressivi credono che sbarazzandosi della religione ci sarà la pace. Sono fantasie e perseguendole si mettono in pericolo le fondamenta della libertà”. Il 23 luglio 2015 è apparsa sul giornale The Telegraph la recensione di Sameer Rahim all’importante e recente libro di Rav Sacks Not in God’s Name.
Rahim scrive che Rav Sacks, nella sua analisi problematica delle religioni e della violenza religiosa, direbbe troppo poco circa Israele e i suoi problemi. Secondo Sameer, proprio Israele sarebbe a suo modo un case study, in quanto “lo Stato di Israele creato per preservare il Popolo Ebraico dopo la Shoah, spodestando al contempo un altro gruppo umano, è un eccellente case study del paradosso del potere religioso”. Il giornalista Sameer volutamente e perniciosamente dimentica, nel suo “fare informazione”, che i sionisti delle prime generazioni non erano certo ebrei religiosi, che Israele non è mai nato come risarcimento per la Shoah e che in Israele, infine, né cristiani né musulmani né atei sono perseguitati. È tuttavia interessante la conclusione che egli propone: si deve pregare perché la storia si muova nella direzione del re-incontro tra Isacco e Ismaele, rifuggendo dall’esito nefasto dei fatti riguardanti Caino e Abele.
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