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Sarò come rugiada per Israele 13/07/2016

Sarò come rugiada per Israele

 Per Hallel Yaffa Ariel HT’’D Uccisa a coltellate a Kiriat Arba, mentre dormiva, la mattina del 24 sivan 5776 - 30 giugno 2016

Abbiamo saputo che la sera prima avevi danzato, Hallel Yaffa. Fino a tardi, per questo eri stanca e la mattina dopo dormivi ancora. Ancora un po’. Nei tuoi nomi, che ora sono la memoria, la benedizione, c’era la lode, c’era la bellezza. La danza e il canto. La finestra era aperta, per il caldo, e l’assassino giovane è entrato da là, con il coltello, la brama d’uccidere ebrei. Gli hanno impartito questo, questo dovere, ed egli l’ha appreso, non ha saputo rifiutarsi, disconoscerlo e allontanarlo. Non ha distolto lo sguardo, non si è spogliato degli abiti di una continua istigazione al male e alla morte, alla mistificazione dell’esistenza, all’inganno della propria storia, adagiandoli sul greto del fiume e porgendo il suo sguardo alla pietà, anche per sé stesso, al sole in cui vedere risplendere le pietre, all’acqua scintillante d’estate che porta nel suo scorrere le storie dei profeti, di come il sale risanasse le acque, di come le acque venissero separate con il mantello da Elisha ha navì, che pure il tuo assassino avrebbe potuto conoscere, chiamare in arabo Al-Yasa, invocando il suo aiuto, il potere di Eliseo di farlo immergere nell’acqua sette volte, di guarirlo dalla lebbra dell’ingiuria, dal pallore mortale che propositi come quelli che egli nutriva lasciano sul viso, dappertutto nelle membra, nell’animo non abituato a concepire di vivere, di osservare la vita negli altri e desiderarla senza invidia, senza rancore, raggiungerla, condividerla. No, egli ha proseguito. «La morte è un diritto e io ho il diritto di uccidere e morire» aveva scritto. E da Bani Na’im, il paese che fu costruito dagli invasori arabi su quello ebraico di Caphar Barucha, si è incamminato verso casa tua, verso Kiriat Arba, dove, a Hevròn, insieme con i padri, riposano le madri d’Israele, Sara, Rivka e Lea, lasciando che Rachèl sia là, sepolta lungo la strada a Efràt, lungo il cammino verso la terra d’Israele, da Sichem a Hevròn, a piangere l’esilio dei suoi figli e delle sue figlie, ma ad aspettarne, ad accoglierne il ritorno. Ha scavalcato la recinzione. E dalla finestra aperta della stanza dove tu ancora riposavi dopo la danza, la lode, la bellezza, il canto, è entrato. Ti ha accoltellata per diciotto volte, il numero che corrisponde alla parola חי, vivo, mentre tu sorridevi e non sognavi certo la morte, poiché la morte è il sogno di chi non conosce e non vuole conoscere il riso. Ha versato il tuo sangue, mentre tu ancora quasi dormivi, stanca com’eri di dolcezza e di amore, per aver danzato prima, tutta una notte. Ha scelto te per uccidere e morire, come aveva scritto, rivendicandone il diritto. E il suo istinto forse non era cieco. Forse egli è arrivato a te richiamato proprio dalla tua danza che voleva fermare perché essa non arrivasse, gradita, a D-o; dalla bellezza e dalla lode che, inscritte nel tuo nome, erano rinomate nella valle, avevano cura degli alberi, rinfrancavano la stessa luce esorbitante del giorno, il carico delle promesse, il silenzio, la quiete, l’anelito, nelle notti, a vivere in preghiera e in pace. Come i nostri avi, Hallel, che ti precedettero, nel 1929, quando il coltello degli arabi inferse le stesse ferite, la stessa violenza, e il sangue dei vecchi fluiva sulle pagine dei Rotoli della Torà, il capo reclinato, gli occhi rivolti ai cieli, verso Shamaym, nell’ultima affermazione dello Shemà Israèl e nella santificazione del Nome, il kiddush Hashem. E il coltello, il pugnale, dilaniava il corpo delle donne mentre gli assassini stavano sopra di loro, facevano pressione con il loro peso affinché morissero, affinché con il sangue la vita uscisse da loro, dai loro fianchi, dalle labbra che di sicuro, Hallel, ora pronunciano anche il tuo nome. In quale paradiso si ritroverà mai, invece, il tuo assassino giovane, mentre le sue madri danzano un’altra danza, non la tua, splendente e pura, ma una danza macabra di immolazione dei figli al dio kamos della guerra e delle tenebre. Egli scenderà nello Sheòl. Là, nel buio, udrà l’ululato in festa delle madri, l’esiziale celebrazione del suo gesto: «Mio figlio è un eroe, egli mi rende fiera». La lezione mortifera dei capi, dei presidenti dell’autorità nazionale palestinese che non vogliono cedere il passo arrogante e menzognero della loro immane responsabilità negativa. Da là vedrà il sole della terra d’Israele in cui avrebbe potuto vivere nel proprio villaggio e aspettare, poiché verranno, sì, i giorni del raccolto, di dare senso a un’attesa, a un bisogno da non trasformare in morte, e precipitato così, invece, nel luogo della distruzione, nello Sheòl, nell’abisso. Vedrà le pietre su cui non ha voluto appoggiare il capo, invece di avanzare per uccidere. Il riflesso della vita cui si è rifiutato di consegnare la pietà, anche verso sé stesso, perché non andasse perduta per sempre, nonostante gli odi, nonostante la sofferenza atroce che si forma alla scuola della pretesa e del rifiuto totale dell’altro. Il greto del fiume su cui non ha voluto lasciare gli abiti della cattiva ispirazione, spogliandosene e immergendosi nelle acque capaci di risanare, di insegnare il sorriso dell’età, la gioia, Hallel, la tua stessa danza, la lode che ogni volta i fili d’erba e l’aridità, persino, ricevevano da te. Non risalirà. Com’è profetizzato nelle parole di Ishayah, di Isaia: -Più non vivranno coloro che sono andati nello Sheòl, non risorgeranno, ogni loro ricordo svanirà. E così che ha rinunciato per sempre alla vita, uccidendoti, il ragazzo venuto da Bani Na’im. E non ha trovato, non troverà il paradiso delle vergini, ma lo sheòl, l’abisso. E se io sono obbligata a non sentire che oramai mi manca la pietà, Hallel, a sentire che essa è invece piantata e salda in me come la radice caparbia e irrinunciabile che Avraham avinu, Abramo nostro padre voleva piantare nel nome stesso di stesso di D-o, che è rachamim, misericordia, quando chiedeva salvezza per uno, uno soltanto almeno degli abitanti di Sodoma e Gomorra, che fosse giusto e che si trovasse, incolpevole, tra gli abietti, tra gli inospitali, so che questa pietà va rivolta a chi vive, ancora vive, e non ha preso la strada della morte da ambire e infliggere. A coloro che anche nel villaggio di Bani Na’im al mattino ringraziano D-o per il giorno, per l’assolata fatica e l’ombra di luce, il riparo cercato fra gli alberi, nella consuetudine, nei ritmi. Alla donna araba che un giorno ho scorto sul ciglio della strada, a Itamar, trasportare sacchi pieni d’olive e foglie, trascinarli senz’arma, senz’altro pensiero che la costruzione dell’oggi e del domani, la preghiera, il caffè, la pita con l’olio d’oliva spolverata di za’atar, la polvere verde fatta di timo, maggiorana, issopo, sesamo e sale. I figli e le figlie, che sia meno dura e più libera la loro vita. Questi i suoi pensieri mentre mi avvicinavo e le dicevo: -Fin dove arrivi, Um, vediamo di trovare qualcuno che ti aiuti, non trascinare questo sacco da sola, non ti fa bene. Non farebbe bene nemmeno a me, se ti aiutassi io. -Che Allah ti salvi, figlia d’Israele, che Allah ti salvi. E il jilbab era lungo e nero, il foulard di cotone bianco, spesso e resistente ai raggi del sole. Non c’era protervia, malvagità, doppiezza. Solo le parole del vivere, stanco a volte, e la protezione di D-o evocata su di me. E per quella donna, per quelli come lei, fossero in pochi, fosse una soltanto, cerco ancora salvezza, pace, tikvà. Mentre le madri che hanno ancora una volta ballato, offerto i dolci ed ululato per l’uccisione di ebrei, non fanno che bruciare, annullare nelle lande più aspre e ostili l’anima dei figli spronati e condotti al sacrificio umano, con cui rendere satura la terra che respingerà tutti loro. Hallel io sono in viaggio. Rivisito i luoghi dove mio padre mi indicava le palme, e persino nel vento, persino nell’andirivieni di stormi di passeri fra gli eucalipti, m’insegnava a riconoscere il ricordo, il legame. Diceva: «Tu guarda, i nostri avi, dalla Spagna, in fuga, vennero in questi posti simili a quelli che avevano dovuto abbandonare, e che in serbo tutti avevano per loro il ricordo. Gerusalemme è il ricordo. Hevron è il ricordo. È a Kiriat Arba che voglio vivere. È quello il legame. Portatemi, fatemi vivere nel mio paradiso». Ora sono in viaggio in Italia, l’Italyah, l’isola della rugiada divina che rimanda all’altro tuo nome, Yaffa. Il tuo nome di bellezza e rugiada. Non sono ancora passati i trenta giorni dalla tua sepoltura. Tu sei ancora qui con noi e danzi. Se di pomeriggio mi siedo, in un giardino dove oltrepassare la distanza con gli occhi, tra le foglie di alberi alti e la luce, dove rivedere con il pensiero la terra d’Israele, il percorso, il ritorno, là le api, le dvorot che senza sosta danzano, è come se danzassero la tua danza profetica e intatta. Se cammino controluce al mattino presto nelle città, e vedo la rugiada sull’erba, nella via del mare, è come se ti vedessi ancora danzare, ridere, suggerire a tua madre Rina, e a tutti noi, che tu rinascerai. Che anche tu, con la promessa di Oshea ha navì, del profeta Osea, sarai “rugiada per Israele”. כַטַּל לְיִשְׂרָאֵל Fiorirai come i gigli, il lilium, le rose. Come gli alberi metterai radici per sempre, si spanderanno i germogli della tua vita, della bellezza, della tua fragranza. È questa la lode, le lettere non distrutte del tuo nome.

 Ariella Lea Heemanti

Che il ricordo di Hallel Yaffa Ariel  sia di benedizione.

IC Redazione

 


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