IC7 - Il commento di Lia Levi
Dal 26 giugno al 2 luglio 2016
Sicurezza, format TV e Gay Pride
Quello straordinario scorrere di creatività “Impariamo da Tel Aviv” è una mezza frase (ma nel caso che ho sott’occhio, Corriere 18/06, si tratta addirittura di un titolo) che quasi ha smesso di sorprenderci. E’ capitato ormai abbastanza spesso di leggere parole di questo tenore quasi sempre riferite al tema “sicurezza”, quella sicurezza speciale che in Israele si coniuga in una doppia valenza: capacità di prevenire o, in caso di attacco, rapido ritorno alla normalità. Al primo compito, come tutti sanno, è preposta una intelligence esperta nel mettere in campo a tutela di aeroporti e degli altri luoghi di aggregazione, ogni sfaccettatura della più sofisticata tecnologia (robot compresi). Al secondo (purtroppo gli attentati di chi spara sul mucchio non sono prevedibili. Giardini dell’Eden non esistono) far fronte a una società reattiva pronta a ricostruirsi all’istante, e a non permettere in nessun modo che si possa lasciare uno spazio alle macerie sul marciapiede dove prima si camminava o correva.
Quel “dobbiamo incominciare a vivere all’Israeliana” che attorno a noi abbiamo sentito mormorare con sommessa (a volte repressa) ammirazione da persone sconvolte dagli assassinii terroristici che hanno devastato il cuore dell’Europa, nel caso che mi è capitato di leggere recentemente pare abbia traslocato su un altro terreno. Ed è curioso e anche rallegrante incontrare espressioni già orecchiate applicate ora in un campo così diverso e finalmente all’insegna della leggerezza. Questa volta si tratta di format televisivi. Israele, ci dicono, si è rivelato uno dei paesi più avanzati nell’esportazione di questi programmi, terza in una classifica di dieci (dopo Gran Bretagna e Stati Uniti) con la Francia al settimo posto e l’Italia assente. Un format, come ampiamente noto, è un involucro, un’intuizione generica che ogni paese deve poi ricreare per adattarlo al suo pubblico. E’ suppergiù, come la logica, una struttura, un’impalcatura del pensiero entro cui si innesta il lavoro specifico degli studiosi.
Non è un caso che Israele si sia trovata in prima fila in una elaborazione destinata a poi proiettarsi come una freccia verso il mondo esterno. Inventiva, gioventù, tecnologia che si re-inventa, fantasia non addomesticata, ma soprattutto una innata capacità di avere una funzione propulsiva anche a distanza dal nucleo centrale, sono gli ingredienti che hanno favorito questo straordinario volo nell’etere, talvolta anche a scoppiettii multipli. Pensiamo ad esempio a “In Treatment” adattato in tredici paesi e rimbalzato a catena in successivi cerchi (in Italia, e non solo, oltre alla propria versione è stata mandata anche quella statunitense). Stiamo parlando certo di una realtà limitata a un ben preciso campo, ma già, anche qui, ci troviamo di fronte a un fermo-immagine della parte più vera della società israeliana.
E come si può non far correre il pensiero per immediata consonanza alle vie di Tel Aviv nei giorni del recentissimo Gay Pride di cui ancora si parla? Lasciamo a parte la trovata di un “Israele pro-gay di facciata” vale a dire per motivi propagandistici, bizzarra teoria a cui si è trovato a dover far fronte il nostro Davide Romano. I discorso è un altro, ci sono cose che dentro di noi scorrono come acquisite, non ci si sofferma abbastanza per rifletterci con un po’ di calma. Ma insomma perché quelli che riempiono di folla le vie di Israele sono considerati in modo incontrovertibile i migliori Gay Pride del pianeta? Forse perché gli ebrei sono sempre stati “gli altri” e sono naturalmente tutt’uno con “gli altri”, perché chi è stato lungamente colpito si è modellato sulla sofferenza di chi patisce abituandosi a “gridare in silenzio” non dimenticandosi mai del dovere di lottare? Perché l’ebraismo è la religione del dubbio, è il popolo di un Dio di cui è vietato riprodurre un’immagine per cui è strutturalmente immune da una qualsiasi ideologia? Nel paradiso terrestre è stato l’uomo, e non il signore, a dare un nome a tutte le cose che erano state create nel mondo.
Scendendo più nella concretezza del quotidiano non può sfuggire il fatto che ci troviamo di fronte ad una collettività costruita all’insegna del sopravvivere, una collettività che si deve inventare ogni giorno l’atto della creazione attingendo infaticabilmente alla propria forza vitale, con tutti i corollari correlati. E siamo tornati una seconda volta all’appuntamento con quel mix di intelligenza, sensibilità, capacità di sentire il tempo e fantasia che ha nome “creatività”. E la creatività, direbbero: “E’ fatta della stessa materia della felicità”. Perché, va detto, quello che si coglie per le strade di Tel Aviv anche a distanza, non è semplice entusiasmo di adesione, ma felicità. Non si tratta di essere vicini a “loro”, ma di essere “loro” e alla fine è quella della gioia la vera funzione unificatrice. Solo in Israele scatta così tanto…è solo qui che l’atmosfera, per motivi che conservano anche un po’ di mistero, opera quanto i contenuti. Del resto ricordiamoci della storia che ha raccontato nella sua autobiografia lo scienziato- scrittore Oliver Sacks, respinto in patria con orrore per la sua omosessualità dalla madre ortodossa, fu accolto con incredibile calore insieme al suo compagno da una zia centenaria altrettanto ortodossa, ma abitante in Israele.
Lia Levi, scrittrice. Le sue opere, tra cui il bestseller "Una bambina e basta", sono pubblicate dall'editore e/o