venerdi 20 settembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
02.07.2016 Negoziato senza precondizioni: Netanyahu lo chiede, Abu Mazen rifiuta
Lo riconosce anche Abraham B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 02 luglio 2016
Pagina: 19
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «Medio Oriente, negoziato senza precondizioni»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/07/2016, a pag. 19, con il titolo "Medio Oriente, negoziato senza precondizioni", il commento di Abraham B. Yehoshua.

L'articolo esprime le posizioni di A.B. Yehoshua, da sempre molto critico nei confronti di Netanyahu e dei governi da lui guidati. Anche Yehoshua, in ogni caso, riconosce la necessità di un negoziato senza precondizioni, e sottolinea che questo sia stato proposto di recente molte volte da Netanyahu ad Abu Mazen (così come dai precedenti primi ministri di Israele negli anni e decenni passati), che ha sempre rifiutato. Questo deve essere chiaro (Yehoshua lo specifica soltanto nella prima parte dell'articolo): Netanyahu e Israele chiedono negoziati senza precondizioni, Abu Mazen li rifiuta. Da questo dovrebbe essere evidente chi vuole la pace e chi no.

Ecco l'articolo:

Immagine correlata
Abraham B. Yehoshua

Immagine correlata
Abu Mazen, Benjamin Netanyahu

I sostenitori della pace israeliani, a qualunque corrente essi appartengano, hanno il dovere di esigere dall’Autorità palestinese e dal suo leader di accettare la proposta del Primo Ministro di Israele di avviare un negoziato diretto e senza precondizioni. E a questa pretesa devono unirsi i rappresentanti della Lista Araba Unita alla Knesset.

Negli ultimi mesi il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato più volte, anche in presenza del primo ministro britannico e di quello francese, di essere pronto ad avviare una trattativa diretta e senza precondizioni con i rappresentanti dell’Autorità palestinese e a discutere con loro di tutte le questioni che sono oggetto di controversia, compresa quella dei confini e dei rifugiati. E in un’occasione ha persino affermato di essere disposto a tenere i negoziati a Ramallah.

Anch’io, come molti altri, conosco bene la doppiezza, le false affermazioni e le astuzie politiche del Primo Ministro. So anche che spesso dice cose che non pensa. Ma se il leader di Israele avanza la proposta di un negoziato diretto e senza precondizioni i palestinesi devono accettare di parteciparvi, qualunque ne sia il risultato. Se una simile trattativa porterà un seppur minimo miglioramento nei rapporti tra i due popoli, vale la pena di tentarla. Sì, è vero, è impossibile dividere Gerusalemme, ma un eventuale smantellamento degli avamposti illegali e il trasferimento di alcune piccole zone dell’Area C (attualmente controllata da Israele) sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese sarebbero pur sempre un risultato importante. E anche se nulla di sostanziale verrà deciso nel corso del negoziato e ci si limiterà a deliberare una più equa distribuzione dell’acqua ai centri abitati palestinesi della Giudea e Samaria o un miglioramento delle condizioni dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, varrà comunque la pena di sedersi a un tavolo e instaurare un dialogo aperto e onesto.

I palestinesi potranno continuare a rivolgersi alle istituzioni internazionali e chiedere il loro aiuto e sostegno anche durante i negoziati diretti. L’esistenza di una trattativa non preclude infatti una solerte attività diplomatica. Dopo tutto anche Israele continuerà a lavorare per rafforzare le proprie posizioni. Solo un negoziato diretto, infatti, porterà a una soluzione fra i due Stati, non la pressione di enti internazionali, degli Stati europei o degli americani. Oggi, inoltre, è chiaro che il caotico e confuso mondo arabo, invischiato in sanguinose guerre civili, non risolverà il problema dei palestinesi e non garantirà loro la libertà politica che si meritano. Nemmeno quando il mondo arabo era forte e unito è riuscito, dopo la guerra dei Sei giorni e quella dello Yom Kippur, a impedire la fondazione di un solo insediamento.

E se i palestinesi, nel profondo del loro cuore, rifiutano la soluzione dei due Stati e preferiscono quella di un’unica nazione, allora che lo proclamino apertamente spiegando anche, nel corso della trattativa, come ritengono si possa foggiare questo Stato e a quali condizioni. Il proseguimento dell’occupazione, con tutte le sue ingiustizie, non solo avvelena il Dna di Israele ma favorisce il decadimento dell’identità palestinese.
Dopo la guerra dei Sei giorni ci sono voluti vent’anni perché i palestinesi prendessero atto della loro situazione disperata e riconoscessero la sovranità di Israele entro i confini del 1967. E questo riconoscimento è arrivato solo in seguito alla pace con l’Egitto e con la Giordania e alla massiccia immigrazione di ebrei dell’ex Unione Sovietica. Arafat rifiutò di aderire al drammatico accordo di pace siglato da Sadat con Israele nel 1977 e il processo di pace perse anni importanti durante i quali lo Stato ebraico costruì insediamenti che erosero il territorio del futuro Stato palestinese. La sospensione dei negoziati dopo i colloqui di Camp David e gli orrori della seconda intifada allontanarono ulteriormente l’auspicata soluzione. E quando finalmente l’ex primo ministro Ehud Olmert consegnò a Mahmud Abbas una mappa con i confini definitivi dei due Stati, corrispondenti a quelli del 1967 tranne che per un 2 o 3 per cento, Abu Mazen non reagì, tacque e ignorò la proposta, ritenendo che di lì a poco Olmert sarebbe stato una figura politica irrilevante. Ma perché mai Abu Mazen dovrebbe addentrarsi nel ginepraio della politica israeliana? In veste di leader di un popolo sotto occupazione che anela alla libertà dovrebbe lavorare giorno e notte per promuovere un negoziato che ponga fine a questa situazione. Avrebbe dovuto quindi accettare l’offerta del governo israeliano e trasformarla nella colonna portante del prosieguo della trattativa.

Anche se i sostenitori della pace non credono alle dichiarazioni di Netanyahu dovrebbero prenderlo comunque in parola ed esigere, sia su un piano morale che politico, che l’Autorità palestinese avvii subito dei negoziati. Forse mi illudo, ma ho l’impressione che anche Netanyahu e i suoi seguaci si rendano conto che, a lungo termine, uno Stato binazionale appare una prospettiva molto fosca e una soluzione pericolosa per l’identità israeliana. Un negoziato ininterrotto, caparbio e il più trasparente possibile (per quanto possa essere esasperante e frustrante) è quindi estremamente importante per ambo le parti.

Non è possibile che lo schieramento per la pace si limiti a blandire l’Autorità palestinese con parole di simpatia e di solidarietà, e nemmeno basta una limitata collaborazione fra quest’ultima e le forze dell’ordine israeliane sul piano della sicurezza. I sostenitori della pace devono pretendere in maniera univoca dalla leadership palestinese di invitare a Ramallah i più alti rappresentanti israeliani, come suggerito da Netanyahu, e affrontare tutti i problemi alla luce dei riflettori, davanti alle telecamere e senza precondizioni. Qualunque soluzione e qualunque minimo accordo saranno i benvenuti.

Per inviare la propria opinione alla Stampa, telefonare 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


direttore@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT