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La Stampa Rassegna Stampa
28.06.2016 Ebrei a Padova, integrazione, non assimilazione
La storia raccontata da Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 28 giugno 2016
Pagina: 30
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Padova, un altro ghetto è stato possibile»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/06/2016, a pag.30, con il titolo "Padova, un altro ghetto è stato possibile", il commento di Elena Loewenthal.

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Elena Loewenthal              Padova, interno della sinagoga

Di che cosa è fatta una storia? Di luoghi, momenti irripetibili nel bene e nel male, persone e idee che le guidano. Nulla di tutto questo manca nella secolare vicenda della comunità ebraica di Padova, che oggi conta circa duecento anime, ma come in tanti altri casi non sono i numeri che valgono, è la sostanza di vita. Per raccontare questa storia, che è unica come ogni altra ma con qualcosa di speciale in più, non si può non partire da una data terribile: nella notte fra il 13 e il 14 maggio 1943 un incendio doloso - opera di fascisti - distrugge quasi interamente la sinagoga della città con i suoi archivi. Nessun giornale menziona l’evento, nessuno viene denunciato. La comunità viene «consigliata» di «dichiarare che si è trattato di un cortocircuito», racconta Ada Levi nelle sue memorie. L’Università aperta Le leggi razziali, la guerra, le deportazioni: tutto sembra andare nella direzione di un terribile finale della storia, ma non è così. A settant’anni dalla fine della guerra, Padova ebraica esiste ancora e di recente, grazie al presidente della comunità Davide Romanin Jacur, al rabbino Adolfo Locci e a una squadra di persone all’opera, Padova ebraica è anche un museo «interattivo» dove la storia della comunità si disegna nei volti e nelle parabole di vita di personaggi del passato, perché «una generazione va e una generazione viene» e così è la vita. E a dispetto di quel rogo doloso, a dispetto delle leggi razziali e di tutto quello che è stato appena settant’anni fa, la storia di questa piccola comunità ebraica è straordinariamente emblematica nella coerenza con cui per secoli ha portato avanti il principio di una integrazione che non significava assimilazione ma incontro di identità: italiana, ebraica, culturale, politica. Il terreno per questo dialogo tra mondo ebraico e mondo «esterno» era quanto mai fertile. Non per niente l’Università di Padova era praticamente l’unica in Europa che in passato accolse e laureò studenti «senza l’obbligo di dichiarazione di fede». E così, tra i ritratti di ebrei padovani che accompagnano in video il visitatore del piccolo ma significativo museo, c’è anche Vittorio Polacco, nato a Padova il 10 maggio 1859, che tra il 1905 e il 1910 fu rettore dell’Università prima di trasferirsi a Roma dove insegnò diritto civile e partecipò a numerose commissioni governative. Le battaglie dei rabbini Mezza generazione prima di lui, Giacomo Levi Civita, vissuto tra il 1846 e il 1922, fu sindaco della città e successivamente senatore del Regno d’Italia. Le sue battaglie politiche hanno un che di avveniristico: interviene a favore del divorzio e del riconoscimento di paternità, in difesa della laicità della scuola e dell’istruzione femminile. Basta scendere via via dentro il passato lungo i secoli per realizzare quanto sia unica e speciale questa storia. Yehuda Mintz vive a Padova nella seconda metà del XV secolo. È un rabbino eclettico, a lungo rettore della accademia di studi ebraici della città. Tra i suoi tanti pronunciamenti, ce n’è anche uno che permette agli uomini di vestirsi da donna per il Purim, il Carnevale ebraico. Moshe Haiim Luzzatto è invece una delle grandi personalità dell’ebraismo europeo nella prima metà del XVIII secolo: rabbino, cabbalista e poeta, ha lasciato un ricco patrimonio di testi prima di partire per la Terra Promessa, guidato da una imperiosa voce interiore. Nel 1800 nasce invece Samuel David Luzzatto, meglio noto con l’acronimo Shadal: studioso e scrittore prolifico, è stato un grandissimo personaggio ma soprattutto il simbolo di un illuminismo ebraico che concilia la tradizione con la necessità di aprirsi al mondo, e soprattutto con una inesausta curiosità intellettuale. E tra i tanti ritratti di questo ebraismo padovano così sorprendente e ora «visitabile» attraverso le installazioni del museo, nei volti e nelle voci e nelle vite di questi e altri personaggi, proprio Shadal esempla meglio di ogni altro la natura di una storia fatta di incontri. Di una integrazione sociale, politica e culturale avviata e costruita ben prima che nel resto d’Italia e del mondo si aprissero le porte dei ghetti. «Imparare e insegnare» Certo, anche a Padova c’era il ghetto. Ma le sue mura non impedivano la comunicazione e la possibilità per gli ebrei di avere un ruolo attivo nella società, nell’università, nel mondo che stava al di là di quelle mura. Senza per questo perdere se stessi, anzi rappresentando al tempo stesso un polo importante per la tradizione e gli studi ebraici. Non è una lezione da poco, questa. Non soltanto per l’ebraismo contemporaneo che sta affrontando in questo presente la sfida della conservazione attraverso l’integrazione, di continuare a essere sé stesso in una società aperta. Questa capacità di conciliare più identità dentro la persona, come nella secolare storia degli ebrei che qui a Padova hanno saputo e potuto essere anche cittadini, protagonisti nella vita della città e del Paese, è in fondo la ricetta che il presente esige da ognuno di noi. Nessuno è soltanto «una cosa», ognuno di noi racchiude più identità e deve imparare a esprimerle ma soprattutto a conciliarle. Come nel caso di Emilio Morpurgo (1836-1885), ad esempio: ebreo padovano, statista, politico, altro rettore dell’Università di Padova, socio di svariate accademie in Italia e Inghilterra, segretario generale del ministero dell’Agricoltura, cognato di un garibaldino. Una storia costantemente piccola nei numeri ma generosa di vicende uniche che, come direbbe Shadal, è stata capace di lilmod ulelammed, «imparare e (soprattutto) insegnare».

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