Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/06/2016, a pag.24, con il titolo "Il Papa in Armenia: 'Fu genocidio' ", la cronaca di Marco Ansaldo.
Alla cronaca asettica del viaggio, sono d'obbligo alcune riflessioni, che traiamo dal Foglio di ieri, che ha pubblicato un testo del tedesco Michael Hesemann, autore di una biografia di Ratzinger scritta a quattro mani insieme al fratello dell'ex papa. Bene introdotto in Vaticano, dunque, dove ha potuto consultare gli 'archivi segreti'- così li definisce il Foglio- che riguardano la diplomazia vaticana del 1915, in pieno genocidio armeno.
Hesemann sarà anche convinto di aver scritto una difesa d'ufficio del papa regnante in quegli anni, Benedetto XV, ma una lettura attenta scopre subito che i tentativi della Santa Sede erano solo parzialmente rivolti al massacro degli armeni. Anche se furono molti gli interventi dei vari cardinali, la parola più corretta per definirli- lo scrive lo stessi Hesemann- era "discrezione". L'obiettivo prioritario era salvare dal massacro altri cristiani, i non armeni, dalla strage dei giovani turchi, i quali -soprattutto all'inizio - non andavano evidentemente per il sottile: cristiani armeni, cristiani non armeni, tutti erano in lista per essere eliminati. L'intervento del Vaticano salvò gran parte di questi ultimi, non i primi.
Papa Francesco non entra in argomento, è già molto che chiami 'genocidio' il massacro. La diplomazia vaticana, così come è avvenuto durante il nazismo- rimane 'secretata'. Se ne saprà qualcosa quando l'interesse sarà totalemente scomparso.
Riprendiamo integralmente l'rticolo di Michael Esemann per consentire ai lettori di verificare il nostro commento:
Armenia, storia d'un grande massacro
Il Foglio 24 giugno 2016
Papa Benedetto XV Michael Hesemann
Il Papa è arrivato nel paese caucasico, un secolo dopo il genocidio che cancellò l’antica comunità cristiana. La persecuzione raccontata dagli archivi vaticani di Michael Hesemann | 24 Giugno 2016
All’inizio di giugno 1915 l’arcivescovo Angelo Maria Dolci, delegato apostolico a Costantinopoli, era venuto per la prima volta a conoscenza di avvenimenti riguardanti le aree interne dell’Impero ottomano. “Centinaia di armeni – così riteneva ancora in quel frangente e lo scriveva in un telegramma cifrato a Roma – sarebbero in fuga a causa delle persecuzioni perpetrate da musulmani. Voci di massacri, veritiere oppure artatamente diffuse, accompagnano questi flussi di profughi”. Il 22 di giugno venne a sapere che anche ad Adana era in corso un tentativo di “sradicare la componente armena e cristiana dall’intera provincia”. Centinaia di famiglie venivano scacciate con la forza dalle loro case, dai villaggi e dalle città e “messe sulla strada senza avere una meta certa dove recarsi”. All’inizio di luglio gli venne inoltre comunicato che 700 cattolici, tra i quali l’arcivescovo armeno-cattolico mons. Ignatius Maloyan, erano stati vittime di un massacro pianificato. Anche dalle altre province dell’est del paese gli arrivavano notizie di un complessivo allontanamento forzato di tutti gli armeni cattolici e non, e dell’uccisione di migliaia di uomini tra i quali sacerdoti e vescovi. Furono queste le ragioni che lo spinsero a indirizzare, all’inizio di luglio del 1915 una richiesta scritta di grazia al Gran Visir dell’Impero ottomano, Said Halim. Nel frattempo, mentre gli armeni ortodossi a causa delle loro rivendicazioni per l’uguaglianza di diritti politici erano generalmente malvisti, e per i loro contatti con la sede del catholicos di Etchmiadzin, la città santa degli armeni, situata nella parte russa della loro area di insediamento, erano accusati di collaborazionismo con il nemico, non sussisteva alcun dubbio sul fatto che gli armeni legati a Roma fossero tra i più fedeli sudditi del sultano. Anche nel caso in cui i turchi avessero giustificato le deportazioni come misura di prevenzione contro pericolose insurrezioni, non c’era alcun motivo di coinvolgere i cattolici, proprio perché costoro avevano rinunciato a qualsiasi attività politica, causando peraltro una forte irritazione nei loro confratelli ortodossi. Eppure, per quanto il delegato apostolico facesse presente che con questo atto di clemenza nei confronti dei cattolici armeni si sarebbe accattivato la benevolenza della Santa Sede, il Gran visir non lo degnò della benché minima risposta. “Alla luce del male che questo stato stava causando alle popolazioni non musulmane – scrisse mons. Dolci il 19 luglio del 1915 al cardinal Girolamo Gotti, le potenze cristiane avevano il dovere di intervenire”. Alla fine di luglio l’Osservatore Romano riferiva di massacri contro i cristiani di Diyarbekir. Il mese successivo non c’era più alcun dubbio sulla portata delle aggressioni poste in essere dai turchi. “Questo governo si è reso colpevole di terribili atrocità nei confronti di cittadini armeni innocenti nelle aree interne dell’Impero. In alcune regioni sono stati massacrati, in altre deportati in luoghi sconosciuti, per farli morire di fame lungo il percorso. Ci sono madri che hanno venduto i propri figli, per preservarli da morte certa. Si lavori instancabilmente per fermare questa barbarie”. Questo scriveva il 20 agosto del 1915 monsignor Dolci al cardinal Pietro Gasparri, segretario di stato, per poi aggiungere quello steso giorno “è uno spettacolo barbaro, che mi spezza il cuore e mi riempie di orrore”. Più di ogni altra cosa però lo affliggeva il senso di personale impotenza. “Mi sono recato più volte dal Gran visir e dal sottosegretario per gli affari esteri. Nel corso dei colloqui il Gran visir mi ha sempre dimostrato grande benevolenza nei confronti dei cattolici armeni, la cui fedeltà al suo governo non gli era certo sfuggita, promettendomi che sarebbero stati rispettati. Eppure alle promesse non ha fatto seguito alcuna azione concreta”. E infatti alla fine del mese altri 7.000 cattolici armeni vennero deportati da Angora (Ankara). Altri loro confratelli erano stati già deportati alla fine di luglio: tutti i maschi tra 15 e 70 anni dopo una marcia di sei ore erano tasti aggrediti di sorpresa dalle unità speciali turche e ammazzati a colpi di vanga, martello, ascia e scure, affinché sembrasse un assalto delle popolazioni delle campagne. A molti dei circa 500 cadaveri, che rimasero insepolti sul fondo di una valle per settimane, vennero amputati naso e orecchie e cavati gli occhi. Un mese dopo, il 27 agosto, 1.500 cattolici armeni tutti di sesso maschile vennero arrestati, tra di loro anche il vescovo e 17 sacerdoti. In seguito al loro rifiuto di convertirsi all’islam, vennero privati di ogni proprietà e imprigionati. Due giorni dopo, prima un gruppo di 800 poi i restanti 700 dovettero abbandonare la città, incatenati a coppie. Vennero però esiliati e non uccisi grazie a un intervento comune dell’ambasciata tedesca e austriaca, del mmministro degli esteri bulgaro e di monsignor Dolci, che fecero forti pressioni sul ministro dell’Interno Talaat Bey per una soluzione diplomatica. La settimana seguente vennero deportate le donne e i bambini di Angora, cui spettò il privilegio di vedersi risparmiato un tratto di strada a piedi verso il campo di concentramento nel deserto siriano: poterono infatti viaggiare nei vagoni bestiame di un treno. Proprio questi risultati apparentemente positivi, di cui beneficiarono i cattolici armeni, irritarono gli ortodossi. Anche quando Dolci in un memorandum per il patriarca armeno-ortodosso assicurò di aver avviato un processo di allentamento delle persecuzioni, al quale verosimilmente anche l’ambasciatore statunitense Morgenthau avrebbe dato il suo apporto, disposto com’era a intervenire su Scheich-ul Ilam, Enver Pascha e Talaat Bey così come sul ministro della giustizia Ibrahim Bey, rimase nell’aria un vago sentore di diffidenza. Al Patriarca non piaceva che degli apparenti privilegi fossero riservato ai soli cattolici, il che nel vilayet di Angora aveva portato perfino a dei passaggi in massa di Armeni gregoriani nelle file della Chiesa Cattolica, il che non rientrava certo tra gli auspici del Papa. In questo senso il Segretario di Stato Gasparri raccomandò al delegato apostolico che il suo impegno non fosse circoscritto ai cattolici “io sono padre di tutti i cristiani, anche di quelli che non mi accettano come tale”, sono le parole con le quali Benedetto XV aveva definito un suo “ecumenismo del sangue”. Per un mese e mezzo Papa Benedetto XV si era affidato al talento diplomatico del suo delegato, a questo punto però prese direttamente lui in mano le redini. Sempre durante il mese di agosto, così venne fatto sapere a Dolci, il Pontefice dapprima si rivolse al kaiser Guglielmo II e all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe chiedendo loro di intercedere a favore degli armeni presso gli alleati turchi. Quindi prese egli stesso la parola e scrisse di propria mano al sultano. “Il Santo Padre – rese noto il cardinale Gasparri alla nunziatura di Vienna – è sconvolto dalle notizie dei terribili massacri contro gli armeni commessi da musulmani, e con il cuore gonfio di compassione per questi sventurati, ha deciso di scrivere a sua maestà, il sultano Mehmet V, per far sì che Egli, avvalendosi dei suoi poteri istituzionali, ponga fine a questa atroce carneficina”. Attraverso l’ambasciata di Costantinopoli il testo autografo giunse nelle mani di monsignor Dolci, che doveva personalmente recapitarlo al palazzo del sultano. Vi si leggeva testualmente: “Maestà, tra le afflizioni che ci procura la grande guerra nella quale si trova coinvolto il potente impero di Vostra Maestà assieme alle grandi nazioni d’Europa, ci spezza il cuore l’eco dei dolorosi lamenti di un intero popolo, che nel territorio governato dagli ottomani è sottoposto a indescrivibili dolori. La nazione armena ha già visto molti dei suoi figli giustiziati, mentre molti altri sono stati arrestati o mandati in esilio. Tra di loro ci sono anche numerosi religiosi e perfino alcuni vescovi. E ci è stato recentemente riferito che gli abitanti di interi villaggi e città sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, per essere quindi dislocati in remoti campi di raccolta tra grandi dolori e pene indicibili, dove tra angherie psichiche e terribili privazioni, devono sopportare ogni tipo di mancanza e perfino i morsi della fame. Noi crediamo, Maestà, che eccessi di questo genere si siano verificati contro la volontà del governo di Vostra Maestà. Per questa ragione ci rivolgiamo, colmi di fiducia nella Vostra Maestà, invitandovi fervidamente, nella Vostra sublime Magnanimità, a dimostrare compassione e a intervenire a favore di un popolo che proprio grazie alla religione nella quale si riconosce, viene invitato a servire fedelmente e devotamente la persona della Vostra Maestà. Dovessero risultare tra gli armeni dei traditori della patria o persone responsabili di altri crimini, costoro dovranno essere giudicati e puniti in conformità al diritto vigente. Possa quindi la Vostra Maestà in virtù del suo grande senso di giustizia non lasciare che degli innocenti ricevano la stessa pena di chi è colpevole e possa la Vostra sovrana clemenza raggiungere anche coloro che hanno commesso delle mancanze”. La notizia dell’intervento del Papa venne resa nota dalla stampa, come previsto. Il cardinale Gasparri, segretario di stato, tentò inoltre di mobilitare la diplomazia austriaca e tedesca. In due comunicazioni scritte (del 15 settembre e del 2 ottobre) incaricò ambedue i nunzi, Scapinelli a Vienna e Fruehwirth a Monaco, di adoperarsi preso quei governi “con discrezione ma anche con grande energia”, affinché “venisse posta immediatamente fine a questo barbaro operato”. Se non avessero agito con sufficiente sollecitudine, Austria e Germania si sarebbero rese corresponsabili dei massacri. Con queste parole mons. Fruehwirth si rivolse a Mathias Erzberger, il delegato centrale bavarese e alla commissione missionaria del Comitato centrale dei Cattolici di Germania, che si riunì il 29 ottobre del 1915 a Berlino. In quella stessa giornata l’organismo decise di redigere una petizione rivolta al cancelliere del Reich Friedrich Alfred von Bethmann Hollweg, affinché “venisse posta immediata fine alle misure punitive oltremodo dure che venivano impiegate contro gli armeni da parte del governo turco” e venisse fermato “l’incombente annientamento dell’intero popolo armeno”. In una lettera del 10 novembre il cancelliere agì di conseguenza dando mandato all’incaricato d’affari il Freiherr von Neurath, di “far valere – in qualsiasi occasione gli si presentasse ed esercitando la massima pressione – la sua influenza presso la Sublime Porta a favore degli armeni e di prestare articolare attenzione affinché le misure coercitive della Sublime Porta non si estendessero ad altri gruppi della popolazione cristiana residenti in Turchia”. Questo tentativo però non sortì alcun effetto. Ciononostante l’impegno di ambedue i nunzi fu riconosciuto dal Papa che li elevò al rango cardinalizio il 6 dicembre di quello stesso anno. In quegli stessi giorni monsignor Dolci si trovava di fronte a un problema totalmente differente. La Sublime Porta si rifiutava infatti ostinatamente di concedergli udienza presso il sultano, che avrebbe ricevuto dalle sue mani la lettera autografa del Papa. Soltanto l’intercessione dell’ambasciata tedesca ottenne il risultato sperato: sei mesi dopo, il 23 ottobre del 1915, il delegato apostolico venne finalmente ammesso al cospetto del sultano. La risposta del sultano si fece attendere altre quattro settimane e giunse il 19 novembre 1915. Tanto più deludente fu però il suo contenuto, che si limitava a sbandierare la bugia propagandistica già diffusa dalla Sublime Porta, secondo la quale “le deportazioni erano la legittima risposta del governo nei confronti di un complotto degli armeni. Per questa ragione era impossibile per lo stato turco e i suoi ufficiali operare una distinzione tra elementi ribelli e pacifici”. Monsignor Dolci sperava comunque che l’iniziativa del Papa avesse quantomeno dimostrato una sua efficacia. “Il risultato era stato assai positivo. Non soltanto si era ottenuto un improvviso miglioramento delle condizioni, ma anche le barbariche persecuzioni erano quasi del tutto cessate”, scriveva il 12 dicembre. Gli era stata perfino promessa un’amnistia per tutti gli armeni in occasione delle festività natalizie. Soltanto poco a poco Dolci si rese conto di quanto fosse stato ingannato e imbrogliato. In nessun caso i cattolici vennero fatti rientrare nelle loro città e nei loro villaggi. Al contrario, “ci sono ulteriori casi di deportazioni e c altri massacri,” dovette infine malinconicamente ammettere rivolgendosi ai suoi referenti a Roma. “Questa promessa (del ministro degli Esteri Halil Bey a monsignor Dolci) , che del resto non era stata espressa in forma vincolante , non è stata mantenuta” dichiarò a Berlino in tono asciutto e referenziale il 27 dicembre anche il nuovo ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte Paul Wolff Metternich. In realtà in quel periodo le grandi deportazioni nei sette vilayets armeni si erano già da tempo interrotte, solo pochi altri erano stati spediti tardivamente nel deserto. A Costantinopoli quasi nessuno era a conoscenza di quanto accadeva da quelle parti e cioè che nei campi di concentramento non solo ogni giorno centinaia di armeni morivano di fame e per le epidemie, ma venivano anche trucidati dai commando delle forze speciali. “La question arménienne n’existe plus”, “non esiste più una questione armena” aveva spiegato Talaat Bey già il 31 agosto all’ambasciatore tedesco ad interim, il conte Ernst Hohenlohe-Langenburg. Un solo risultato aveva ottenuto l’intervento del Papa: agli Armeni di Costantinopoli era stato risparmiato ogni ulteriore provvedimento o deportazione. Non vennero inoltre adottate altre misure nei confronti delle istituzioni cattoliche. Verso la fine dell’anno anche Monsignor Dolci dovette rassegnarsi a constatare che un indescrivibile numero di almeno un milione di Armeni gregoriani, tra i quali 48 vescovi e 4.500 sacerdoti, era stato trucidato fino ad allora e un ulteriore mezzo milione doveva seguirli nella tomba nel 1916. Inoltre fino a quel momento erano rimasti vittima dei massacri cinque vescovi armeno-cattolici, 140 sacerdoti, 42 religiosi e circa 85.000 fedeli. Undici Diocesi (Angora, Kaisery, Trebizon, Erzurum, Sivas, Malatya, Kharput, Diyarbekir, Mardin, Musch e Adana) erano state totalmente evacuate, 70 chiese e anche molte scuole erano state confiscate. In altre due diocesi, Aleppo e Marasch, le persecuzioni proseguirono mentre la sola diocesi di Brousse era stata fino ad allora risparmiata. I turchi avevano palesemente infranto la promessa di risparmiare i cattolici armeni. Deluso e amareggiato, Dolci scriveva questa lettera a monsignor Eugenio Pacelli, segretario agli affari esteri all’interno della segreteria di stato vaticana, proprio l’uomo che un giorno sarebbe diventato Papa: “Per difendere gli armeni, ho perso il favore di Cesare, il Nerone di questa infelice nazione. Intendo con queste parole il Ministro dell’interno Talaat Pascha, Gran maestro della Massoneria d’Oriente. Deve essere venuto a sapere delle forti pressioni esercitate sulle altre Ambasciate dopo l’intervento scritto del Santo Padre. Lo penso perché da quel momento in poi mi guarda davvero male. Per Benedetto XV non sussisteva alcun dubbio sul fatto che “lo sventurato popolo armeno andasse incontro a un quasi totale annientamento”. L’affermò testualmente il 6 dicembre 1915 in una allocuzione davanti al Concistoro, l’assemblea dei cardinali. Che avesse ragione lo certifica un rapporto del patriarca armeno-cattolico che giunse a Roma sei mesi dopo, nel giugno del 1916. “Il progetto di annientamento del popolo armeno in Turchia procede sempre a pieno regime. Gli armeni esiliati, esattamente come accaduto in precedenza, vengono condotti nel deserto e privati di ogni mezzo di sussistenza. Periscono così miseramente per la fame, le epidemie, le condizioni climatiche estreme. E’ certo che il governo ottomano ha deciso di eliminare il cristianesimo dalla Turchia prima della fine del conflitto mondiale. E tutto questo accade sotto gli occhi del mondo cristiano. Anche il tentativo da parte di Benedetto XV di fermare il genocidio degli armeni attraverso un intervento diplomatico, fallì miseramente. Eppure il Papa riuscì perlomeno ad attirare l’attenzione dei cristiani sul triste destino dei loro fratelli nella fede nell’Impero ottomano e sui crimini commessi dal regime turco.
Michael Hesemann è storico e scrittore tedesco, ha compiuto lunghe ricerche presso l’Archivio segreto vaticano, esaminando oltre 3.000 pagine di documenti fino ad allora inediti. Frutto di questo lavoro è il libro “Voelkermord an Armenien”, “Il genocidio armeno” (Monaco, 2015). Nell’autunno del 2015 ha presentato i suoi lavori all’Accademia statale delle scienze della repubblica di Armenia, che lo ha insignito di un titolo di dottorato ad honorem. Con Georg Ratzinger ha scritto il libro “Mio fratello il Papa”.
Ecco la cronaca di Marco Ansaldo su Repubblica:
Marco Ansaldo
EREVAN. «Genocidio». Nel cuore dell'Armenia, dal pulpito del Palazzo presidenziale di Erevan, e simbolicamente all'ombra del Monte Ararat, il Papa pronuncia il termine "proibito" in Turchia. E lo fa in maniera esplicita. Senza appoggiarsi a citazioni di altri Pontefici o a dichiarazioni di udienza davanti a gruppi di fedeli. Per la prima volta Francesco, riferendosi al massacro degli armeni di 101 anni fa da parte dell'Impero Ottomano, parla di «genocidio» con unafrase che porta direttamente la sua firma. Jorge Bergoglio lo ha fatto a braccio, all'improvviso, rendendo così ancora più forte l'impatto delle sue parole. Il termine contestato non c'era nei discorsi ufficiali distribuiti ai media alla partenza per il viaggio apostolico di tre giorni in Armenia. Era invece presente una versione più edulcorata, sicuramente forte, ma che non conteneva "la" parola, riferendosi genericamente al Metz Yeghern, il Grande male. Però ieri pomeriggio, davanti al presidente armeno Serzh Sargsyan e dopo aver incontrato il catholicos armeno Karekin II, si vedeva che Bergoglio aveva dentro di sé qualcosa che intendeva esprimere, e fino a quel momento non aveva fatto. «Non c'è stata preparazione — assicura a Repubblica padre Antonio Spadaro, direttore della rivista La Civiltà Cattolica, gesuita come Bergoglio e finissimo esegeta del pensiero di Francesco—Ha deciso all'ultimo, come fa sempre, scegliendo di dire quello che pensava. Una presa di posizione resa ancora più forte dalle parole ferme sulle responsabilità delle grandi potenze a quel tempo ». Così il Papa. «Quella tragedia» — ha detto seguendo il foglio del discorso — , «quel genocidio» — ha poi affermato facendo qui la sua aggiunta—, «inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razzáali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l'intento di annientare interi popoli». E subito: «È tanto triste pensare che le grandi potenze internazionali preferivano guardare dall'altra parte». Si attendono ora le reazioni da Ankara, che si immaginano veementi. Di recente la Turchia ha richiamato l'ambasciatore in Germania dopo il sì del Bundestag alla risoluzione sul genocidio armeno, protestando contro l'«errore storico». E solo da pochi mesi è rientrato presso la Santa Sede, dopo nove mesi di assenza, l'ambasciatore turco presso il Vaticano, anch'egli richiamato in patria dopo altre affermazioni del Papa sul genocidio. La Turchia non nega il massacro, ma non ammette il termine di genocidio, giustificando i fatti con l'atmosfera di guerra alla vigilia del Primo conflitto mondiale, e considerando i numeri eccessivi. A Erevan si parla di 1,5 milioni di morti. Ad Ankara di una cifra fra le 300 e le 500mila vittime. Una vicenda che da tempo la Turchia chiede sia studiata dagli storici, e non dai politici, confrontando tutti i documenti a disposizione.
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