Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/06/2016, a pag.14, con il titolo "Falluja", il reportage di Vincenzo Nigro.
Vincenzo Nigro
Falluja è tornata alla polvere. Bombardata, devastata. Ormai è deserta. Non è più una città. È un posacenere sporco, i suoi palazzi distrutti come i mozziconi di sigarette che gli ufficiali iracheni spengono con forza. Girano la cicca quasi con violenza dopo aver aspirato fino all’ultimo grammo di tabacco mentre ti raccontano l’assalto. All’improvviso il posacenere sobbalza sul tavolino di plastica che era bianco. Il cannone ha ripreso a sparare. Uno, due colpi; poi ancora, poi di continuo. A due chilometri ci sono ancora gli ultimi cecchini dello Stato islamico, perché Falluja non è stata ancora riconquistata del tutto. E allora gli iracheni usano il cannone, quasi ad alzo zero, contro ogni singolo cecchino, per distruggere le case in cui quelli continuano a nascondersi. Il cannone continua a sparare, tirano le mitragliatrici pesanti, e non capisci quanto sono lontane, quanto è distante il cuore di questa battaglia che lentamente si sta spegnendo, seppellendo una città intera sotto le sue macerie. Era la città delle cento moschee, rimangono i mozziconi. Era la città sunnita ribelle, quella che si rivoltò di continuo contro l’occupazione americana, che uccise e impiccò ai piloni di un ponte sull’Eufrate quattro contractors americani attirandosi anche la devastazione del fosforo bianco nel novembre del 2004. Adesso è tornata un deserto, violenza e polvere. Sì certo, molti edifici, quelle case basse irachene che lungo le strade sono abitazione e bottega, sembrano ancora in piedi. Ma le saracinesche sventrate, i locali saccheggiati, devastati e dati alle fiamme dicono soltanto una cosa: ci vorranno decenni e milioni di dollari per ricostruire qualcosa, per far ritornare la vita. Alle 6 del mattino partiamo da Bagdad con il primo convoglio del Ministero della Sanità che va a verificare i danni negli ospedali e si porta dietro un po’ di aiuti e un pugno di giornalisti iracheni assieme a un italiano. Per arrivare a Falluja non seguiamo la strada più diretta, quella autostrada 14 che passa da Abu Ghraib, ma allunghiamo a Nord, sulla A1, e pieghiamo ad Ovest fin quasi ad Habbaniyah, la città del lago. Poi la prima tappa, in un ospedale da campo allestito attorno a quella che doveva essere una stazione di servizio con un piccolo supermercato. Sono le forze di “Al Hashid Al Shaabi” ad aver mobilitato migliaia di infermieri, soldati e volontari dal Sud dell’Iraq, da Nassiriya, da Najaf, Diwaniyah, dalle altre città sciite. Le “Forze di mobilitazione popolare”, le “Pmf”, sono la coalizione di milizie che ha risposto all’appello del grande ayatollah Al Sistani che nell’estate del 2014 incitò il popolo sciita alla guerra contro i tagliagole del “Daesh”, come l’Is viene chiamato ovunque nel mondo arabo. Dentro ci sono l’ex Esercito del Mahdi di Moqtada Sadr, la potentissima Forza Badr dell’ex ministro Hadi Al Hamri, gli “Hezbollah” di Akram Al Kaaabi. Una coalizione che è più forte e meglio armata dell’esercito e della polizia iracheni, una posse che risponde agli ordini dei vari capi politici e militari sciiti del paese, un’alleanza armata e sostenuta dall’Iran che gli americani coordinano con difficoltà, provando a vincere le battaglie senza permettere agli sciiti di vendicarsi e devastare le popolazioni sunnite che per quasi tre anni hanno vissuto sotto l’Is. «In questo ospedale abbiamo curato e smistato verso gli ospedali alcune centinaia di feriti », dice un medico che nella vita civile vive a Najaf: «I più leggeri volevano ripartire immediatamente per il fronte, gli altri li mandavamo negli ospedali». Dietro l’edificio basso che era lo stanzone del supermercato c’è l’ospedale da campo che è stato creato affiancando una decina di container sollevati da terra con quei blocchi di mattoni di calcestruzzo che qui sono il materiale per costruire le case più povere. Dentro i medici per ora riposano, si fanno intervistare dai giornalisti e rispondono alle domande dell’ispettore generale del ministero, il dottor Ahmad Yahia Al Saadi che oggi si è presentato al fronte anche lui con una divisa mimetica, proprio come facevano i burocrati civili al tempo di Saddam Hussein. I primi giorni di battaglia devono essere stati pesanti, ma gli iracheni c’erano arrivati preparati. Dal 2014 - e le vediamo arrivando in pullmino da Bagdad - il governo aveva creato linee di contenimento, muraglioni di terra, sabbia e filo spinato lunghi chilometri, interrotti ogni cento metri da una postazione con mitragliatrice, a proteggere la capitale dal contagio dei villaggi che come Falluja erano nelle mani dei miliziani. Adesso quelle piccole linee Maginot sono state abbandonate, i soldati sono avanzati cerchio dopo cerchio, e dal 23 maggio, quando il premier Al Abadi ha ordinato l’assalto finale, i villaggi sono stati presi uno alla volta fino ad arrivare a Falluja. Ci sono state decine di kamikaze che arrivavano in auto oppure con mezzi blindati pronti a farsi esplodere. Per mesi i blindati- bomba hanno terrorizzato i soldati: arrivavano i kamikaze, due, tre anche quattro camion- bomba alla volta, saltavano i check point di protezione e dietro i jihadisti suicidi dilagava la fanteria del Califfato. Gli iracheni hanno cambiato tattica; aiutati dai droni delle forze speciali americane, li avvistano per tempo e li prendono direttamente a cannonate da chilometri di distanza. Oppure chiamano i caccia americani. Il generale Abdul Wahab è uno dei capi dell’offensiva; in prima linea questo comandate delle forze speciali spiega che in città ci sono solo l’esercito e la polizia regolari, le milizie sciite sono tutt’intorno, perché così hanno chiesto gli americani. «Abbiamo sfondato ieri notte sull’asse occidentale della città, abbiamo raggiunto il quartiere di Golan e poi i distretti di Duhat 1, 2 e 3». Il generale non spiega quante case sono state fatte saltare dall’Is e quante dai suoi cannoni o dall’aviazione americana. È impossibile dire quanta distruzione è stata messa a segno dai jihadisti nei quasi tre anni della loro occupazione e quanta dalle battaglie precedenti. Adesso il convoglio di auto del ministero della Sanità si sposta al General Hospital, «lo abbiamo preso quattro giorni fa, ma gli americani ci hanno detto di aspettare ad entrare, credevano che fosse pieno di trappole esplosive o che i nostri miliziani sciiti uccidessero sul posto i feriti del Daesh che avremmo potuto trovare dentro». Il giro di Falluja è rapido, veloce e sommario. Dove arriviamo non vediamo uno soltanto dei suoi poveri cittadini. Nessuno, tutti sono fuggiti. I profughi sono stati portati a migliaia tutt’intorno, nei villaggi già liberati dall’Is e sopravvissuti meglio alle devastazioni di questi due anni di califfato. Nelle ore che hanno preceduto l’assalto finale, quando i jihadisti hanno iniziato a capire che la fine era vicina, prima hanno provato a sparare a chi provava a fuggire, «ma poi hanno risparmiato le munizioni», dice il generale. Molti sono scappati in ogni modo, anche attraversando l’Eufrate, che fa una grande ansa proprio al confine sud-occidentale della città. Di lì si sono messi in marcia a centinaia, con i bambini e i vecchi rimasti per due anni sotto il terrore del califfato. «Li abbiamo salvati e aiutati», dice un ufficiale, «molti ci ringraziavano tremando, gli uomini del Califfo avevano detto loro che i nostri soldati erano tutti sciiti, che li avremmo massacrati se li avessimo catturati, ma noi li aiutiamo, sono degli scheletri, a Falluja non c’era più cibo, non c’era nulla, solo violenza e fame». Non è chiaro cosa sia successo in questo mese di assalto finale alla città, non è chiaro quanti sunniti accusati di collaborazionismo siano stati uccisi a sangue freddo come è capitato ad ogni miliziano dell’Is catturato. Molti dicono che nei campi della zona, dove manca ancora quasi tutto e soprattutto si vive all’aperto a 40 gradi, i racconti delle persecuzioni subite passino di bocca in bocca. Ancora non conosciamo questa parte della storia. Ma il 5 gennaio del 2014 quando il califfato conquistò Falluja, l’Europa neppure se ne accorse, pochi capirono cosa si era scatenato. Adesso nessuno può immaginare cosa accadrà dopo che un esercito sciita avrà terminato di assaltare la città delle cento moschee sunnite. In Iraq la guerra porta guerra. Polvere e cenere.
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