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Fuori c’è la realtà
chi segue la politica israeliana non avrà perduto negli ultimi giorni l’appuntamento annuale dell’Institute for Policy and Strategy (IPS) di Herzlyia, il più importante forum extra-istituzionale della politica israeliana, abbastanza ricco da permettersi di pagare il costo di una relazione introduttiva di Henry Kissinger anche se in forma di intervista e in collegamento video, perché l’ex segretario di Stato si sente troppo vecchio per viaggiare. Trovate qui la registrazione (https://www.youtube.com/watch?v=iS8svYcrD70 ). Kissinger non ha detto nulla di rivoluzionario, ma ha sottolineato con la voce del buon senso, che le conferenze internazionali e le mozioni all’Onu non risolveranno il conflitto arabo-israeliano e ha suggerito una strategia di gestione per piccoli passi, che è l’approccio seguito dai governi Netanyahu. Ma è stato proprio l’assente Netanyahu, non Kissinger, il tema principale della conferenza, o meglio il suo oggetto polemico, perché sul palco si sono avvicendati candidati alla sua successione: Tzipi Livni, che ha annunciato la possibile fondazione di un nuovo partito (sarebbe il sesto per lei); un paio di generali ex capi di stato maggiore (Ganz e Askenazi) che hanno lasciato capire che potrebbero impegnarsi in politica, senza dire con chi (http://www.jpost.com/Israel-News/Politics-And-Diplomacy/Four-IDF-chiefs-of-staff-attack-Netanyahu-457026 ); un altro ex capo di stato maggiore ed ex ministro della difesa, appena licenziato da Bibi, Moshé Ya’alon, che ha promesso di candidarsi lui come avversario di Netanyahu, in concorrenza coi precedenti e in un altro partito nuovo, perché i suoi toni polemici lo mettono evidentemente fuori dal Likud da dove proviene (http://www.jpost.com/Israel-News/Yaalon-Israel-doesnt-face-any-existential-threat-not-even-Iran-456978 ); un altro ex ministro della difesa, Ehud Barak, che invece ha detto di non volersi candidare, senza però tacere sul rischio “fascista” dell’attuale governo e accennando anche di essere stato l’unico politico capace di battere Bibi alle elezioni (http://www.jpost.com/Israel-News/Barak-Netanyahu-in-a-panic-knows-the-end-of-his-reign-is-near-457074 ). Tutto come se le elezioni fossero domani, anche se il recente rafforzamento della maggioranza con l’ingresso del partito di Lieberman e l’adozione di un bilancio biennale fanno pensare che sia probabile una durata del governo vicina al termine di legge di quattro anni - dunque fino al 2019. E però, a parte le autocandidature e le filippiche degli ex ministri ed ex capi dell’esercito che trovano ragioni di critica solo quando escono dalla stanza dei bottoni, a Herzlyia più o meno tutti hanno sollevato contro Netanyahu un argomento interessante. Non è vero, hanno detto, quel che sostiene Bibi sui pericoli che corre il paese, questo è solo un modo di suscitare e sfruttare la paura della gente. Israele è sicuro, hanno detto tutti, non vi sono oggi pericoli immediati che ne minaccino l’esistenza, “neanche l’Iran”, come ha detto Ya’alon.
Ma sbagliano. Perché dire di un governo, che è stato eletto innanzitutto per garantire la sicurezza, che il paese è effettivamente al sicuro vuol dire riconoscere il suo successo. Soprattutto se si pensa che questa sicurezza è stata ottenuta sotto un’amministrazione apertamente ostile, in mezzo a ondate di terrorismo, nell’ambito di un Medio Oriente che è immerso in una terribile e sterminata guerra civile, sotto le minacce esplicite e ripetute a ogni piè sospinto di una potenza imperialista, aggressiva e seminucleare come l’Iran. Semplicemente Israele ha la forza di contrastare le aggressioni se vi presta tutta la sua attenzione e la sua cura, se non rinuncia a difendere politicamente e anche militarmente la sua sicurezza, se mantiene lo sguardo lucido sulla realtà regionale, senza indossare gli occhiali rosa del pacifismo né, tanto meno, l’odio di sé degli antisionisti. Cioè se continua nella politica attenta e nella capacità di difendersi tatticamente dalla debolezze strategiche che hanno caratterizzato la politica di Netanyahu. Perché fuori di Herzlyia c’è la realtà del Medio Oriente, difficile e sanguinosa, dove le armi prevalgono sui bei discorsi.
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