Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/06/2016, a pag. 46, il commento di Antonio Gnoli con il titolo "Momigliano, metitazioni sull'ebraismo"; l'intervista di Silvia Berti titolata "Quel nostro ragionevole modo di vivere", ristampata dalle Edizioni di Storia e letteratura.
Ecco gli articoli:
A. Gn.: "Momigliano, metitazioni sull'ebraismo"
Arnaldo Momigliano
Arnaldo Momigliano fu uomo austero e curioso. Spaziò con talento e competenza nel mondo antico. I grandi storici del tardo Ottocento — Droysen, Ehrenberg, Bickerman e, tra gli italiani, Gaetano De Sanctis — gli fornirono la strumentazione di bordo per viaggiare tra mondo persiano e greco, romano ed ellenistico. Proveniva da una famiglia di ebrei piemontesi. Il nazismo gliene strappò una parte. Ricordare fu, per lui, un obbligo non solo storico ma civile. Chiunque voglia scendere nelle sfumate profondità del giudaismo legga le Pagine ebraiche di questo grande antichista, in grado di accostarsi a Spinoza già all’età di 11 anni.
Splendidamente curato da Silvia Berti già nel 1987, che lo ripubblica ora con un inedito per le Edizioni di Storia e Letteratura (pagg. 368, euro 24), il libro restituisce il modo in cui la cultura ebraica ha interagito con il resto del mondo antico (qui sotto riproduciamo parte di un’intervista inedita di Momigliano a Silvia Berti del 1987). Momigliano incrociò anche alcune leggendarie figure novecentesche dell’ebraismo: Franz Rosenzweig, Walter Benjamin, Gershom Scholem. Per le leggi razziali emigrò a Londra e poi in America. Insegnò all’università di Chicago. Conobbe Leo Strauss. Dell’amico apprezzò la maniera di accostarsi ai libri del passato. Essere interprete di testi. Come se i testi fossero parti di una vita remota da riportare al mondo.
Silvia Berti: "Quel nostro ragionevole modo di vivere"
La copertina
Mi piacerebbe sapere qualcosa in più sulla tua famiglia, soprattutto su tuo nonno Amadio Momigliano. «Il nonno Amadio era in realtà il fratello di mio nonno, che si chiamava Donato Momigliano ed è morto molto giovane. Amadio prese in casa a Caraglio mio padre quand’era ragazzo perché il nonno era malato di tubercolosi e allora si aveva una grande paura della tubercolosi; poi, alla morte del nonno, fu adottato proprio ufficialmente. Aveva una particolare cultura cabbalistica, e negli anni in cui l’ho conosciuto io, cioè dal 1914 al 1924, quando è morto, siamo praticamente vissuti nella stessa casa». (...)
Negli studi classici, quando hai cominciato a interessarti al mondo greco? «Quando sono andato all’università, io intendevo laurearmi in greco. Pensavo di fare una tesi su Menandro, ma appena diventai allievo di De Sanctis, lui mi disse: “Non faccia l’errore di laurearsi in greco; c’è un cattivo professore di greco. Si laurei con me”, e quindi mi sono laureato su Tucidide».
Le curiosità intellettuali finiscono per convergere: questo interesse per le cose ebraiche diventa giudaico-ellenistico perché c’è il mondo greco, il mondo romano… «Ah, ma si capisce. A casa mia erano cose persino ovvie che il momento decisivo era questo, la formazione del cristianesimo, il contatto della cultura greca con la cultura ebraica. Era forte anche l’interesse per il cristianesimo. Attilio Momigliano scriveva su Manzoni, Manzoni come cattolico. Quindi c’era anche questa presenza del mondo cristiano in famiglia». (...)
Come si spiega l’esplosione di storiografia ebraica nel ’900? «Siamo diventati occidentali! È una delle forme naturali dell’occidentalizzazione del giudaismo. Nel giudaismo di oggi uno può continuare la tradizione, le forme talmudiche, che sono le forme tradizionali, ma se no deve cominciare a pensare storicamente».
Mi chiedevo se questo non abbia significato un prezzo pagato in termini religiosi. «È un prezzo che pagano tutti. Uno può conservare ed elaborare una tradizione religiosa anche in termini differenti, cioè moderni. Ma questo vale per il cristianesimo come per il giudaismo. Da quel punto di vista, ebrei e cristiani oggi avranno altre ragioni di dissentire, ma non quella di accettare il metodo storico e cercare di comprendere il proprio passato facendosi delle domande di tipo storico». (...)
E poi d’altro canto mi sembra che da un lato ci sia un aspetto di secolarizzazione, rappresentato da questo grande sviluppo della storiografia; dall’altro, però, quest’enorme crescita della storiografia ha portato a un incremento di interesse proprio intorno al problema religioso. «Non solo, ma anche permette una certa connessione fra passato e presente, nel senso di capire quello che gli altri tuoi antenati pensavano e sentivano, come hanno organizzato la propria vita, e anche rendersi conto che quel che t’importa della tradizione religiosa non è soltanto decidere se ci sono gli angeli o se c’è il purgatorio, o anche se c’è Dio nel senso preciso di una persona con cui puoi discorrere. C’è anche tutto il resto di uno stile di vita, di conoscere i propri debiti. Io certo sento un enorme debito per la mia tradizione, tradizione di studi, di vita famigliare. E poi c’è tutto questo sentire in termini poetici. Studiare la storia degli ebrei significa anche capire l’ebraico, sentire delle voci con cui uno discorre. C’è una direzione della propria vita personale che è la comunicazione col passato e sul passato più recente non si può scherzare. In definitiva, secondo me, il pensiero storico che guarda seriamente a queste cose è una forma di vita religiosa».
Guardando agli studi recenti su questioni ebraiche, c’è una doppia tendenza: da un lato, un enorme sviluppo di studi sul messianismo, sulla Kabbalah, sulla mistica ebraica, dall’altro, appunto, quest’atteggiamento tutto storicizzante, quindi non religioso. «Adesso ce n’è un terzo, curioso, cioè lo studio del Talmud. Sono studi cospicui. Si traduce per intero il Talmud di Gerusalemme in tedesco. In America sono usciti trenta, quaranta, cinquanta volumi di interpretazione del Talmud. C’è la parte mistica, quindi, c’è la parte storico-sociale, ma c’è anche la parte giuridica e di dottrina tradizionale che interessa in questo momento forse più i non ebrei che gli ebrei».
Mi sembra come se, fra tutte le varie tradizioni che l’ebraismo porta dentro di sé, quella un po’ più sacrificata oggi sia forse proprio quella tradizione rabbinica più ortodossa. «Ma, ecco, di questo non sono mica tanto sicuro, perché c’è oggi un confluire di tradizionale rabbinico e di moderno studio rabbinico in forme che sono certe volte ancora molto confuse, ma in altri casi vanno in Israele a studiare Talmud, e le cattedre di talmudica in America si moltiplicano. C’è un’enorme reviviscenza di studi sull’ebraismo».
In vari saggi, ma più esplicitamente in “Epilogo senza conclusione”, parli di Filone, di Flavio Giuseppe, e dici che rispetto all’ellenizzazione e alla cristianizzazione del mondo che poi vince attraverso Paolo, l’ebraismo si è conservato grazie alla tradizione rabbinica, cioè grazie alla sua relativa chiusura. «Senza dubbio. Ma una cosa mi è sempre sembrata molto importante: quello che gli ebrei hanno portato con sé attraverso i secoli è un modo piuttosto ragionevole di vivere. Cioè nonostante tutti i guai che sono loro capitati sono sempre riusciti a crearsi una vita interna della comunità. E sotto un certo aspetto, forse proprio perché non dovevano ammazzare il prossimo per obbligo in guerra – una delle poche nazioni che per duemila anni non ha avuto doveri di questo tipo – hanno creato un tipo di vita che è la più ragionevole ad occidente della Cina, come disse una volta il mio amico Peter Brown. Poi c’è questa idea di amare il prossimo, semplicemente di fare giustizia al prossimo, che mi pare qualcosa di più onesto, insomma essere giusti. E poi questo senso della meditazione, dello studio, della poesia, della musica, che rappresenta parte della tua vita». Il bisogno di scandagliare profondamente, di saggiare tutte le possibili interpretazioni. «Ma poi anche una certa fantasia combinatoria. I talmudisti una certa fantasia poetica ce l’avevano».
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