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La Stampa Rassegna Stampa
12.06.2016 La guerra nella valle dell'Eufrate
Analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 12 giugno 2016
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «La guerra nella valle dell'Eufrate»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/06/2016, a pag.1/ 23, con il titolo " La guerra nella valle dell'Eufrate", l'analisi di Maurizio Molinari.

Sul fallimento degli accordi Sykes-Picot e la nascita articiale degli stati arabo-musulmani dopo la scomparsa dell'Impero ottomano, si veda l'analisi di Mordechai Kedar, pubblicata ieri su IC dal titolo "Il futuro dell'Iraq":
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=62706

Ecco l'articolo di Maurizio Molinari:

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Maurizio Molinari

Nel deserto siriano ai confini con l’Iraq sono arrivati contingenti limitati di truppe speciali americane, francesi e britanniche il cui compito è di aggredire Raqqa, la capitale dello Stato Islamico (Isis), adoperando lo strumento più efficace a disposizione: le tribù sunnite della valle dell’Eufrate. Le 11 ore trascorse a fine maggio nelle regioni controllate dai curdi nel Nord della Siria dal generale americano Joseph Votel, capo del Comando Centrale Usa responsabile delle operazioni in tutto il Medio Oriente, sono servite a due scopi: incontrare i responsabili dei ribelli arabo-curdi delle Forze democratiche siriane per esaminare il piano offensivo su Raqqa e spingerli a intese con le tribù sunnite locali. Nella valle dell’Eufrate risiedono tribù siriane che quando iniziò la rivolta anti-Assad nel febbraio 2011 restarono in gran parte vicino al regime. Il motivo è la loro origine: mentre nella provincia di Deir al-Zour i clan tribali sono legati a quelli sauditi, e dunque hanno partecipato alla sollevazione, in questa regione si tratta di gruppi soprattutto locali sui quali il partito Baath ha investito negli anni, varando riforme agricole tese a foraggiarle e rafforzarle. In particolare la costruzione della diga di Thawra, negli Anni Settanta, e il programma di irrigazione nella valle dell’Eufrate hanno fatto emergere una schiera di capi tribali legati a doppio filo con il potere centrale di Damasco. Fino al punto da creare quella che venne definita una «generazione di tribù del Baath» ai tempi di Hafez Assad. Ma il figlio Bashar ha avuto difficoltà a consolidare tale patto tribale perché il suo arrivo al potere nel 2000 coincise con la riduzione degli investimenti nel sistema di irrigazione della valle e il contemporaneo aumento della popolazione locale. Lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi da quando si è insediato in quest’area, a partire dal 2013, ha fatto leva su tale scontento per assicurarsi il sostegno delle stesse tribù, adoperando ogni mezzo per consolidarlo: dalla consegna di pozzi d’acqua, cibo e terreni ai collaboratori al massacro degli avversari, sepolti in fosse comuni, fino ai matrimoni fra miliziani jihadisti e le figlie degli sceicchi locali. In alcuni casi al-Baghdadi è riuscito a spingere giovani leader tribali ad eliminare i propri genitori e nonni, assumendo dall’interno il controllo dei clan. Pur con tattiche diverse, Isis ha ripetuto dunque in questo angolo di Medio Oriente la stessa strategia del regime del Baath: dotarsi di una piattaforma di consenso tribale per controllare una regione strategica ai confini con Turchia, Iraq e Giordania. Il risultato è che alcune tribù restano fedeli ad Assad, come gli Haddadin che affiancano i reparti governativi contro i ribelli ad Aleppo e Hama, ed altre militano sul fronte opposto, come i Tay di Jarabulus, protagonisti di più attacchi di Isis contro i peshmerga curdi. In entrambi i casi non si tratta di intese granitiche: il regime di Assad, seppur rafforzato dai russi, resta in bilico e Isis dispone di meno risorse del passato, dunque la fedeltà di molte tribù del deserto torna sul mercato. Ad evidenziarlo è quanto sta avvenendo attorno a Manbij e Deir al-Zour dove le defezioni si moltiplicano proprio a vantaggio delle forze ribelli arabo-curde, addestrate ed armate dal Pentagono. Resta da vedere se Washington riuscirà ora a creare nella Siria del Nord un’enclave tribale sua alleata in maniera simile a quanto riuscì al generale David Petraeus nel 2005 nell’Anbar sunnita dell’Iraq, dove proprio in questo modo sgominò i jihadisti di Abu Musab al-Zarqawi, leader di Al Qaeda in Iraq, da cui Isis poi si è generato. La differenza con allora è che Washington non dispone sul terreno di un ingente numero di proprie truppe né appare incline a versare alle tribù significative risorse, in denaro o altri beni. Ciò spiega le difficoltà del generale Votel che sta tentando di assicurarsi il sostegno dei clan tribali spingendo i leader dei ribelli curdo-arabi a collaborare. La presenza di contingenti ridotti di truppe speciali alleate è strumentale a tale tattica. In ultima istanza dunque la possibilità di strappare Raqqa al Califfato si lega ad una nuova fase delle guerre tribali che tengono banco in Medio Oriente sullo sfondo dell’indebolimento, o dell’implosione, degli Stati nazionali frutto degli accordi di Sykes-Picot siglati cento anni fa.

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direttore@lastampa.it

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