Riprendiamo dal MATTINO di oggi, 01/06/2016, a pag.1/43, con il titolo "Israele, il nuovo partito dei conservatori", l'articolo di Fabio Nicolucci.
Un articolo ingarbugliato, che rivela in chi l'ha scritto ignoranza, supponenza e pregiudizi. Si può spiegare se si pensa che il MATTINO, quotidiano di Napoli, ha voluto fare un omaggio al sindaco uscente e ricandidato De Magistris, un campione della propaganda anti-Israele.
Non c'è riga che si salvi, andrebbe tutto sottolineato con la matita rossa. Nicolucci legga meno romanzetti di fantapolitica, studi la storia di Israele e del Medio Oriente, magari visiti il paese, forse ne capirà qualcosa.
Ecco il pezzo:
Fabio Nicolucci
Visto troppo spesso in occidente come un’eccezione e spesso negato per questo, Israele è invece «l’occidente dell’occidente». Lo è soprattutto per quanto riguarda la cultura politica, e dunque per il funzionamento del suo sistema politico. Se oggi, per esempio, si fa un gran parlare dell’emergere di movimenti neofascisti, xenofobi e populisti in Europa, in Israele tale dibattito è cominciato da tempo, così come l’allarme di democratici e progressisti sull’influenza crescente di tali sintomi di malattia del sistema. Tanto da far parlare in Israele dell’arrivo di una democrazia «post-liberale».Se però di Trump, CasaPound e xenofobi austriaci in forma israeliana in quel paese si parla e si battaglia da tempo, è solo con le recenti dimissioni obbligate del Ministro della Difesa Moshè Ya’alon che in Israele è scattata una – questa sì – peculiare valvola di sicurezza del sistema. Al contrario che per ogni altro paese occidentale, i garanti ultimi dello Stato in Israele non sono infatti i politici bensì i militari e i professionisti della sicurezza, lo «Stato profondo». Per ragioni storiche e per ragioni contingenti, essendo Israele ancora tecnicamente in guerra, dopo 68 anni dalla sua fondazione con voto Onu, con quasi tutti i suoi vicini arabi e i loro alleati. Il loro interventismo non è quindi segno di un’attitudine antidemocratica bensì una conseguenza della particolare struttura dello Stato d’Israele. E rappresenta anche una valvola di sicurezza quando la politica oltrepassa per oltranzismo o incapacità linee rosse che mettano in pericolo la sicurezza dello Stato. Partono infatti dai professionisti della sicurezza – in quanto esperti formatisi ogni giorno sul terreno – e non dalla politica molti dei suggerimenti più pragmatici e quindi più avanzati anche sul terreno politico rispetto alla grande questione del rapporto con «l’altro», in primis i palestinesi. A questo pragmatismo si oppone per ideologia la destra neoconservatrice, da due decenni al governo, perché ciò significherebbe abbandonare il contesto moralistico e dicotomico della guerra tra Bene e Male per entrare in quello tutto politico tra due diversi nazionalismi. Una posizione ideologica che però lo «Stato profondo» ritiene metta in pericolo nel lungo periodo Israele, perché impedisce di passare dall’irrealistico obiettivo di «risolvere il conflitto» con mezzi militari a quello più pragmatico di «controllare il conflitto». Quando scatta questa preoccupazione sui rischi per lo Stato questa elité posta a sua protezione non esita a mettere in moto dinamiche politiche volte a ottenere il cambio della politica oppure il cambio dei suoi fautori. Con Sharon, convinto al ritiro unilaterale da Gaza nel 2005, fu il primo caso. Con Netanyahu, spesso si è trattato del secondo. Già nel 1999 avvenne un «putsch democratico, quando l’ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano (Idf) Amnon Lipkin-Shahak fondò un nuovo partito per sottrarre voti al partito di Netanyahu e determinare – come avvenne – la sua caduta dal potere in quanto “minaccia alla sicurezza nazionale», indirettamente a favore dei laburisti e di Ehud Barak, che vinse le elezioni. Allora almeno cento alti ufficiali della riserva parteciparono all’operazione. La stessa dinamica si ripeté nel 2011, con una lettera pubblica di ex capi dei vertici di sicurezza, e sembra ripetersi oggi. Corrobora questa ipotesi il fatto che la tempesta delle dimissioni di Ya’alon è stata preceduta da molti tuoni in lontananza. Due gli episodi principali. Il primo è stata la sconfessione del ministro della Difesa Ya’alon quando ha condannato l’uccisione a sangue freddo a Hebron, da parte di un soldato dell’Idf, di un terrorista palestinese oramai neutralizzato e a terra. Ripreso da una telecamera, e smentita la sua versione di legittima difesa, è stato deferito alla corte marziale dal Capo di Stato Maggiore Eizenkot con il consenso del Ministro, per violazione del codice morale dell’Idf. Il Capo del governo Netanyahu, invece, cedette alle pressioni della destra più oltranzista e telefonò al padre del soldato per esprimergli comprensione, sconfessando il suo ministro. Il secondo episodio è invece rela- tivo ad alcune dichiarazioni del vicecapo di Stato Maggiore dell’Idf Yair Golan nel Giorno del Ricordo della Shoà, quando in un discorso ufficiale segnalò come alcune dinamiche nella società israeliana – razzismo, xenofobia e estremismo politico – ricordavano a suo avviso “dinamiche che apparvero in Europa e Germania decine 70 e 80 anni fa”. Netanyahu chiese una sconfessione al suo ministro, che invece non solo si schierò con Golan ma fece un discorso all’esercito che non solo mostrava consapevolezza del fatto che stesse per essere sostituito da Lieberman, ma anche indicava bene quali fossero le sue convinzioni sulla democrazia israeliana e i suoi doveri. Il 20 maggio scorso vi fu la rottura. Se dunque Netanyahu al momento sembra aver allargato le basi parlamentari del suo governo, le ha pero pericolosamente ristrette nei rapporti con lo “Stato profondo”. Un sondaggio recente mostra che se Ya’alon fondasse un partito otterrebbe 25 seggi, relegando il Likud da cui è uscito dagli attuali 30 a 21. Vista l’attuale inconsistenza della sinistra politica israeliana, sarà Ya’alon il nuovo Sharon, e il suo partito il nuovo Kadima?
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