La scelta giusta
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra: Benjamin Netanyahu
Cari amici,
Il mondo che conta (politica, media, università, istituzioni internazionali, Ong ecc.) continua a volere che Israele "faccia la pace" coi "palestinesi", vale a dire che ceda loro Giudea e Samaria, facendo pulizia etnica della sua stessa popolazione che vi risiede, rendendo difficilissima la sua difesa e creando l'ennesimo stato arabo, musulmano e terrorista. Non serve chiedersi qui le ragioni di questa volontà: ideologia di sinistra, senso di colpa di vecchi colonialisti, illusione di un appeasement con il terrorismo arabo, puro e semplice antisemitismo. Adesso ci basta prendere atto di questa volontà.
I diversi movimenti palestinisti vogliono invece di più. La gentile concessione di quelli che Abba Eban chiamava "confini di Auschwitz" per loro è solo il primo passo: richiedono il "ritorno" di quattro milioni di "rifugiati", ritorno nel territorio israeliano residuo, badate, non nella Giudea e Samaria che nel frattempo esigono vengano loro donate. E quindi intendono chiudere la partita con gli "ebrei" (è questo il termine che usano, non "israeliani") che odiano e disprezzano: con le armi, con l'emigrazione "spontanea", con il voto. Non è un piano segreto, è il disegno strategico continuamente dichiarato e ribadito dal tempo degli accordi di Oslo. Il mistero è per quali ragioni tutto il mondo che conta faccia finta di non saperlo. Ma oggi devo rinunciare a parlarvene.
Israele di fronte a queste volontà non ha molte scelte. Può piegarsi, con l'idea assai poco realistica di ottenere la gratitudine degli arabi e la simpatia del mondo. È stata questa la grande illusione di Oslo. Può temporeggiare, sperando che il contesto strategico migliori e sapendo che in economia, in tecnologia ma anche in demografia il tempo lavora per l'ottimista e produttivo e prolifico popolo ebraico e non contro di lui. È la strategia del secondo Ben Gurion e anche di Netanyahu.
David Ben Gurion
Oppure può cogliere l'occasione favorevole per ottenere il proprio diritto, sfidando i nemici e anche gli amici incerti. Lo fece Ben Gurion dichiarando l'indipendenza nonostante l'opposizione non solo araba e britannica e della diplomazia americana, ma anche di un bel pezzo di mondo ebraico, inclusi padri nobili come Buber, Arendt e Leon Magnes. Oggi il dilemma è lo stesso. Come reagire all'assedio di Israele? Netanyahu ha mostrato un grande virtuosismo tattico nell'evitare i danni senza perdere i contatti con l'America di Obama e l'Europa, della cui antipatia di Israele non vale neanche la pena di parlare qui ora. Ha denunciato con forza l'accordo bidone con l'Iran, ha saputo intessere rapporti positivi ma sotterranei con molti paesi arabi, ha giocato con l'autorità palestinese come il gatto col topo, si è difeso da Hamas senza cercare di modificare la situazione, con l’obiettivo di non far deteriorare il quadro strategico. Giustamente non crede nella possibilità di una pace coi palestinisti ma non ha neanche mai provato a cambiare lo status giuridico di Giudea e Samaria, o anche solo del Monte del Tempio come molti gli hanno consigliato. Crede evidentemente che lo status quo sia il solo possibile obiettivo e ci è riuscito, bisogna riconoscerlo, egregiamente e in tempi assai difficili.
Molti israeliani invece ritengono che un miglioramento si dovrebbe cercare soprattutto nel momento in cui, a parte i giochini diplomatici, i rapporti reale di forza in Medio Oriente sono favorevoli come non mai. È chiaro però che il sistema politico israeliano (non l'elettorato) non è disposto a scelte troppo audaci. Non è un buon segno per una società che è comunque circondata da nemici enormemente numerosi, disposti alla violenza più estrema e armati anche di una prospettiva secolare. Ma non possiamo certo noi che analizziamo le cose da lontano, a pretendere di insegnare agli israeliani la valutazione dei loro rischi. Del resto coloro che vogliono un atteggiamento più attivo della politica israeliana siedono da molti anni nei governi di Netanyahu e ne condividono la responsabilità politica.
Poi c'è il terzo gruppo, quelli che pensano di doversi adeguare, con più o meno cautele alle pressioni della "comunità internazionale" e dei palestinisti, o almeno intendono preparare la condizioni per questa - come definirla? - sottomissione. Sono quelli che pensano sia “folle” cercare di distruggere Hamas, perché poi si sarebbe responsabili del benessere di Gaza, come ho sentito dire a un ufficiale superiore di Tsahal del servizio che cura il rapporto con gli arabi - e anche da qualche italiano. O per esempio che bisogna accettare che l’Autorità Palestinese non paghi i conti dell’elettricità che consuma o che incoraggi in tutti i modi il terrorismo. Che bisogna fare delle concessioni, bloccare le costruzioni nei villaggi e nelle cittadine oltre la linea verde, abolire i controlli, come “gesti di buona volontà”. Che bisogna accettare la tecnica “negoziale” di Abbas dichiarando la propria disponibilità a “concessioni” senza nulla in cambio. In prospettiva che bisogna “restituire” Giudea e Samaria. Che bisogna affidarsi all’America per la difesa dalle minacce dell’Iran, magari prepararsi a “restituire” anche il Golan alla Siria, mantenendo una difesa puramente statica, senza prendere iniziative strategiche. Reprimere duramente la destra che vuole l’annessione di Giudea e Samaria.
Questa è la posizione (con notevoli diversità interne) della sinistra israeliana, di molti intellettuali e - questa è la novità che è emersa progressivamente - anche degli apparati di sicurezza (lo stato maggiore dell’esercito, le direzioni di Mossad e Shin Beth, almeno quelle vecchie, delle attuali non si sa). Naturalmente con l’appoggio molto concreto di Usa ed Europa. Parte dell’agitazione politica delle ultime settimane in Israele sta in questa divaricazione politica. Herzog credeva di farsi pagare l’appoggio al governo Netanyahu con lo slittamento dalla posizione che ho definito attendista a quella della “sottimissione”, appoggiato dal mondo militare e dal ministro della Difesa Ya’alon. Alcune prese di posizione del tutto irrituali di questi ambienti servivano a appoggiare questo slittamento e anche alcune mosse di politica internazionale (la conferenza di Parigi, la presenza prima smentita e poi annunciata di Kerry, la presa di posizione di Al Sissi, il giro di contatti di Blair) andavano in questa direzione.
Netanyahu, a quanto pare ha esitato, ben consapevole di essere alla vigilia di pressioni fortissime su Israele e desideroso di coprirsi, per così dire, sul fianco sinistro. Che poi fosse una manovra o che Herzog pretendesse troppo, alla fine ha scelto l’altra strada: ha lasciato andare Herzog, ha preso al governo Liberman che è piuttosto portatore della posizione attivista, ha licenziato Ya’alon, che era evidentemente il responsabile politico dell’uscita dei militari dai ranghi. E probabilmente riprenderà la sua politica temporeggiatrice, avendo scoraggiato le attese dei nemici “morbidi” di Israele (Usa, Europa e in particolare in questo momento Francia), per non parlare di quelli “duri”. Magari riuscirà a mettersi d’accordo con l’Arabia Saudita per contenere assieme l’Iran (che è l’opposto della politica di Obama, paradossalmente identica in questo a quella di Putin). Insomma, se le cose vanno come sembra, la posizione israeliana nel gioco in Medio Oriente resta la stessa. Non c’è stato il giro di valzer o la sottomissione che speravano Obama e l’Unione Europea. Per chi crede che Israele debba difendersi da solo e pensare di farlo per un lungo periodo, quella di Netanyahu è la scelta giusta.
Ugo Volli