Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/05/2016, a pag. 8, con il titolo "L'ira del Pakistan per la morte di Mansour: 'Gli Usa hanno violato la nostra sovranità' ", la cronaca di Giordano Stabile; a pag. 9, con il titolo "Kosovo, la base dell'Isis in Europa con i soldi dell'Arabia Saudita", la cronaca di Paolo Mastrolilli; con il titolo "I piccoli schiavi della contraffazione in Turchia", la cronaca di Francesco Iannuzzi.
Tre stati diversi, tre forme di terrorismo, dove però il collante è l'islam. Mai dimenticarlo, soprattutto quando vediamo messo in forse il diritto di Israele a difendersi. In Occidente siamo ancora prigionieri del luogo comune " tanto il governo islamico da noi non c'è", non diamo importanza al fatto che è in arrivo.
Ecco gli articoli:
Come nasce e si sviluppa il terrorismo islamico: una immagine che parla chiaro
Giordano Stabile: "L'ira del Pakistan per la morte di Mansour: 'Gli Usa hanno violato la nostra sovranità' "
Giordano Stabile
Mullah Aktar Mansour
Il missile che ha incenerito sabato l’auto del leader dei Taleban, Mullah Akhtar Mohammad Mansour, mette fine anche all’illusione che si possa arrivare alla pace in Afghanistan attraverso la mediazione del Pakistan. Il blitz è stato condotto in territorio pachistano, nella provincia del Belucistan, da droni guidati a terra dalle forze speciali americane. Assieme a Mansour è stato ucciso il suo autista, o il suo aiutante di campo. I corpi sono stati portati a Quetta, «capitale» della leadership talebana in esilio dal 2001.
L’ordine è arrivato dal presidente Barack Obama in quanto Mansour rappresentava «una minaccia diretta» per le forze americane, come ha poi spiegato il segretario di Stato John Kerry. Ma per il governo pachistano si tratta di una «violazione della sovranità». Il premier Nawaz Sharif è stato avvertito a cose fatte. Il portavoce del ministro degli Esteri Nafees Zakaria ha chiesto «spiegazioni». Anche il presidente afghano Ashraf Ghani ha ricevuto la notizia al telefono da Kerry. Ma per Kabul questa «è una nuova opportunità per i talebani che vogliono farla finita con lo spargimento di sangue».
Mansour è stato alla guida dei taleban per meno di un anno, dal luglio del 2015. Aveva preso il posto del Mullah Omar, morto di una malattia renale in un ospedale di Karachi nel 2013, dopo una lunga lotta di successione. Su di lui si erano concentrate grandi speranze. Analisti come Antonio Giustozzi della London School of Economics lo avevano visto come l’uomo «scelto dai pachistani per arrivare alla pace». Fra agosto e settembre 2015 aveva fatto un viaggio di 25 giorni in varie capitali europee. Volava spesso dal Pakistan a Dubai, nonostante fosse sottoposto a un divieto di volo da parte delle autorità occidentali.
Ma il credito si è evaporato nel corso dell’inverno e soprattutto con «l’offensiva di primavera» che ha insanguinato anche Kabul. Con le truppe occidentali ridotte a circa 15 mila uomini, i talebani hanno riconquistato terreno, si sono espansi come «non mai dopo il 2001». Hanno occupato per due settimane Kunduz. Mansour forse sognava di tornare a Kabul su un carro armato, come il Mullah Omar nel 1996.
Ora si apre la lotta per la successione. I due vice sono i candidati principali, con il figlio e il fratello del Mullah Omar (Mohammad Yaqoob e Abdul Manan) terzi incomodi. La scelta più logica sarebbe quella di Moulavi Haibatullah Akhunzada, un religioso dall’ortodossia salafita di ferro, pragmatico e un possibile interlocutore. Pashtun originario della provincia di Kandahar, ha tutti i requisiti in regola. Per Thomas Ruttig, dell’Afghanistan Analysts Network, è «la scelta naturale».
L’altro vice è il Mullah Sirajuddin Haqqani, figlio del famigerato Jalaluddin, eroe della resistenza contro i sovietici ma anche criminale di guerra. Sirajuddin è solo criminale, per Washington è il «più pericoloso» signore della guerra attuale, sulla sua testa pende una taglia di cinque milioni di dollari ed è considerato responsabile dell’ondata di attacchi che hanno fatto 64 morti a Kabul nelle ultime settimane. Sirajuddin ha portato il Network Haqqani, vicinissimo ai servizi pachistani e fondato dal padre ancor prima dei Taleban, dentro la Shura dell’emirato afghano in esilio a Quetta. Non è di Kandahar, e questo potrebbe impedirgli l’ascesa al comando supremo.
Paolo Mastrolilli : "Kosovo, la base dell'Isis in Europa con i soldi dell'Arabia Saudita"
Paolo Mastrolilli
Terroristi kosovari dello Stato Islamico
Il Kosovo è diventato il principale centro di reclutamento in Europa per l’Isis, e in generale per l’islam radicale, promosso dai finanziamenti inviati dall’Arabia Saudita. Lo conferma un’inchiesta pubblicata ieri dal New York Times, a cui bisogna aggiungere le preoccupazioni degli operativi della sicurezza in Europa, che da tempo si lamentano per la mancanza di accesso e collaborazione con le autorità locali nella lotta al terrorismo. «Il Kosovo - dicono - è diventato un buco nero. Spesso non possiamo averlo nemmeno al tavolo delle nostre riunioni, in parte per l’opposizione che viene dalla Serbia».
Questa è una storia molto dolorosa per gli americani, e per tutti i membri della Nato, perché nel 1999 furono proprio i bombardamenti dell’Alleanza Atlantica che consentirono al Kosovo di liberarsi dalla morsa di Belgrado. Subito dopo però i sauditi iniziarono ad infiltrare la regione, che da mezzo secolo era il bastione di una interpretazione tollerante dell’islam, per imporre al suo posto la visione estremista di wahhabismo e salafismo.
Il risultato è che negli ultimi due anni la polizia locale ha individuato 314 kosovari che hanno aderito all’Isis, il numero più alto in Europa. Tra di loro ci sono almeno due terroristi che si sono fatti saltare in aria, 44 donne e 28 bambini. Gli investigatori hanno incriminato 67 persone, arrestato 14 imam e chiuso 19 organizzazioni islamiche che violavano la costituzione incitando i fedeli alla violenza. L’ultima condanna è stata comminata venerdì scorso, a 10 anni di prigione, contro Zekirja Qazimi, l’ex studente di una madrasa diventato agente del wahhabismo in Kosovo.
Il meccanismo rivelato dall’inchiesta del Times è molto preciso.
Dal 1999 in poi l’Arabia ha cominciato ad inviare finanziamenti e uomini per sostituire la tradizionale scuola hanafita, dominante nella regione dall’epoca dell’Impero ottomano, con quella wahhabita. Milioni di euro, trasferiti attraverso organizzazioni caritatevoli come il Saudi Joint Relief Committee for Kosovo, al Haramain, e al Waqf al Islami, che in realtà servivano a diffondere estremismo e terrorismo. Prima in favore di al Qaeda, e poi dell’Isis. Il Kosovo ora ha 800 moschee, di cui 240 sono state costruite dopo la guerra, con i soldi dell’Arabia. Questi centri promuovono la sharia, la jihad e il takfirismo, che autorizza l’uccisione dei musulmani eretici. Attaccano gli imam moderati e spingono i giovani studenti, come è successo con Albert Berisha, ad andare a combattere in Siria. Questo flusso ora sembra destinato ad aumentare, per le difficoltà che l’Isis sta incontrando nel Paese dove è nato e in Iraq: «Ci potranno cacciare da Raqqa - ha detto un suo portavoce - ma non ci sconfiggeranno». La strategia infatti è quella di espandersi in altri Paesi, come è già accaduto in Libia.
La presenza in Kosovo è particolarmente preoccupante per gli europei e per l’Italia, perché potrebbe diventare una base per organizzare attentati nel continente. Gli investigatori occidentali, infatti, denunciano non solo il traffico di esseri umani, ma pure quello di armi attraverso questa zona.
Il problema è anche politico. Il Kosovo funziona come uno stato, offrendo quindi agli estremisti le strutture di cui hanno bisogno, ma ufficialmente non lo è, e questo limita la cooperazione con le autorità degli altri Paesi. La Serbia poi, destinata ad entrare nell’Unione Europea, si oppone a riconoscerlo, e quindi impedisce anche la sua presenza alle riunioni degli operativi della sicurezza. Un impedimento tecnico, che rende ancora più minacciosa la presenza dell’Isis nel cuore dell’Europa.
Francesco Iannuzzi: "I piccoli schiavi della contraffazione in Turchia"
Recep Tayyip Erdogan
Nella periferia di Istanbul fioriscono e prosperano fabbriche di tessuti e scarpe che producono centinaia di migliaia di capi destinati al mercato occidentale. Fin qui nulla di strano, ma dietro l’apparente legalità di tutto questo si nascondono realtà di frode e sfruttamento. La maggior parte di questi prodotti non è commissionata dai grandi Brand, ma ne riporta i loghi e le forme: è il paradiso della contraffazione. Se la cosa si fermasse qui sarebbe già grave.
Ciò che rende tutto questo inquietante, però, è che a lavorare tessuti e scarpe c’è un esercito di minori, turchi sì, ma soprattutto siriani. Il vero business è decentrato e si trova nei garage di Gaziantep, cittadina al confine siriano a solo 50 chilometri da Aleppo. In questi antri bui, senza corrente elettrica e con un odore di mastice che toglie il respiro, per 13 ore al giorno dalle sette di mattina alle otto di sera, questi bambini, anche di 7 anni, cuciono magliette e incollano scarpe. Ognuno di loro guadagna 5 lire (1,5 euro) al giorno. Ai pochi adulti va meglio, ne guadagnano 30 all’ora (9 euro). A denunciare questo sfruttamento e la complicità della polizia turca, sono Valentina Petrini e Gabriele Zagni in un reportage che andrà in onda questa sera poco dopo le 21 a Piazzapulita su La7. I prodotti di queste piccole mani verranno poi caricati sui Tir che dalla Turchia attraverseranno l’Europa per finire sulle bancarelle, come i nastri che imbelliscono le infradito, venduti per quattro o cinque euro, esattamente il lavoro di tre giorni di un bambino turco o siriano.
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