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Il Manifesto Rassegna Stampa
18.05.2016 Museo dell'identità palestinese: dimentica però chi erano i veri 'palestinesi'
Il furto dell'identità nell'articolo di Michele Giorgio

Testata: Il Manifesto
Data: 18 maggio 2016
Pagina: 8
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «La cultura palestinese è in mostra»

Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 18/05/2016, a pag. 8, con il titolo "La cultura palestinese è in mostra", il commento di Michele Giorgio.

Israele ha subito, negli anni, tra gli altri, un furto di identità: quella palestinese. Negli anni Venti e Trenta erano gli ebrei residenti nell'attuale Israele a essere definiti "palestinesi", non gli arabi, che si ritenevano semplicemente "arabi". Il "Palestine Post" era il più importante giornale ebraico (oggi si chiama "Jerusalem Post"), l'Orchestra nazionale palestinese era composta da ebrei (oggi è l'Orchestra filarmonica israeliana), e così via.

In questo pezzo Michele Giorgio rovescia la storia e ricostruisce un'identità palestinese, attribuendola però non agli ebrei, ma soltanto agli arabi che oggi vengono definiti "palestinesi". E' un furto d'identità che non tiene conto del fatto che la maggior parte degli arabi palestinesi sono emigrati nell'attuale Israele tra Ottocento e Novecento, dopo che l'arrivo di molti ebrei europei aveva creato una crescita economica prima inesistente. Gli arabi palestinesi, però, non si sono mai auto-definiti tali fino agli anni Sessanta con l'arrivo dell'OLP.

Negare l'identità degli ebrei è stato il primo passo, negli anni Trenta, da parte del regime nazista. Oggi Giorgio fa lo stesso con gli ebrei di Israele.

Ecco l'articolo:

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Michele Giorgio

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La bandiera della Palestina (sotto mandato britannico) negli anni Trenta. A destra, la bandiera di Israele

E' appuntamento davvero eccezionale. Persino il giornale più famoso del mondo, il New York Times, ha deciso di dare spazio all'inaugurazione oggi a Bir Zeit, in Cisgiordania, del Museo Palestinese, la più imponente struttura culturale mai costruita nei Territori occupati. Peccato che James Glanz e Rami Nazzal, i due inviati del NYT abbiano dedicato una buona parte del loro servizio a raccontare dispute tra i responsabili del museo e a mettere in dubbio il curriculum del nuovo direttore, Mahmud Hawari, che sostiene di aver svolto un incarico di primo piano al British Museum. E' come se i palestinesi dovessero dimostrare più degli altri di saper fare le cose, di avere i titoli giusti, quando realizzano progetti di questa importanza. O forse questo pruriginoso interesse per cosa c'è dietro è solo un modo per offuscare il significato che avrà questo museo per la conservazione e la diffusione della cultura, della memoria, della storia, della creatività di un popolo senza Stato.

Una struttura che non a caso viene inaugurata tre giorni dopo il 68esimo anniversario della Nakba. Il Museo Palestinese è costato 28 milioni di dollari ed è stato costruito su 40mila mq di terra appartenenti all'università di Bir Zeit, uno dei partner principali del progetto. L'edificio in pietra e vetro, disegnato dallo studio irlandese Heneghan Peng, si inserisce nel paesaggio a terrazzamenti con percorsi pedonali che si snodano in giardini con piante d'olivo. Il finanziamento è giunto dall'associazione «Taawon-Welfare».

«Si tratta di un progetto ambizioso che già nella realizzazione dell'edificio vuole dare un segnale ben preciso a chi si avvicina al museo» spiega Tafida Jirbawi, la direttrice di Taawon «l'intero complesso nasce dalla terra, viene fuori dell'utero della nostra terra, creando un legame indissolubile con la natura, l'ambiente, la gente di Palestina». Edward Said, docente universitario e tra i più grandi intellettuali palestinesi, trent'anni fa notava che la narrazione palestinese non è mai stata ammessa nella storia ufficiale di Israele, se non come quella dei «non-ebrei» tenuti, peraltro, a partecipare allo smantellamento della propria storia.

Il museo a Bir Zeit è quindi un segnale lanciato al mondo sulla volontà dei palestinesi di riaffermare la loro esistenza, la loro narrazione e, allo stesso tempo, di guardare al mondo. Uno degli obiettivi è quello di creare rapporti stabili con le più prestigiose istituzioni culturali internazionali, di accogliere mostre ed eventi di ampio respiro nonché di «esportare» collezioni palestinesi ovunque grazie a sistema multi-disciplinare all'avanguardia. Un primo esempio è la mostra-satellite che si aprirà a Beirut il 25 maggio, «Nelle cuciture: per una storia politica del ricamo palestinese», che esplora il ricamo tradizionale palestinese nei decenni successivi al 1948 fino agli inizi del ventunesimo secolo, come modello per gli «artisti della liberazione» e per le figure femminili nell'Intifada, e come spunto per la creatività di giovani artisti palestinesi. La mostra inaugurale «Never Part», in programma ad ottobre, include interviste ai palestinesi, anche della diaspora, sugli oggetti personali che conservano gelosamente. Si tratta di una «collezione» alla quale ha lavorato per più di tre anni anche l'ex direttore Jack Persekian: 280 oggetti e testimonianze che offrono una miscellanea di interpretazioni alternative della storia collettiva della Palestina. Una tazza, un pettine, un tavolo di backgammon, un letto e tanto altro, inclusa la collezione di coralli fossili del noto avvocato dei diritti umani e scrittore Raja Shehadeh, ricordi che testimoniano che i palestinesi, ovunque essi siano, non si separeranno mai dalla Palestina, non si allontanerano mai realmente dalla loro terra.

Le limitazioni e restrizioni che tormentano i palestinesi sotto occupazione israeliana sono state la spinta per la strategia di fondo che anima il Museo Palestinese. «Se geograficamente noi palestinesi siamo dispersi, divisi e impossibilitati a muoverci nella nostra terra - spiega il presidente Omar al Qattan - se politicamente siamo incoerenti e senza logica; se la maggior parte di noi non ha accesso alla nostra capitale Gerusalemme e se Israele non è mai stato così potente, cosa possiamo fare per sovvertire e superare queste sfide? La risposta è arrivata sotto forma di una 'nave-madre' culturale, questo museo che collega le comunità palestinesi qui e nel resto del globo e consente la condivisione del programma del museo tramite una piattaforma online». «Uno dei grandi miracoli della cultura - aggiunge al Qattan - è che non riconosce le barriere politiche. Il cinema, la poesia, la danza e così via sono potenti ambasciatori per i palestinesi. La cultura è un modo per i palestinesi dispersi in tutto il mondo di connettersi e comunicare tra loro».

Il Museo Palestinese collabora inoltre a digitalizzare più di mezzo milione di foto e documenti audio di eccezionale importanza storica in possesso dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi: dalla guerra del 1967 all'invasione israeliana del Libano del 1982, fino alle rivolte (Intifada) del 1987 e del 2000 e quella dei giorni nostri. Lo scopo è quello di realizzare un archivio nazionale della memoria palestinese accessibile a tutti online.

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