Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/05/2016, a pag. 1-19, con il titolo "Il patto del terrore in Africa", l'editoriale di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
Boko Haram e Stato Islamico: due volti della stessa realtà
La saldatura islamista al centro dell’Africa forse è diventata realtà: secondo un rapporto Onu i Boko Haram nigeriani e il Califfato si preparano a combattere fianco a fianco per aggiungere una nuova terra ai confini dello Stato di Dio: la Libia del petrolio, del gas, dei porti dei migranti verso l’Europa. Conquistare le congiunzioni del mondo, i luoghi di passaggio, le vene attraverso cui passano uomini, armi e denaro: la vera strategia della jihad planetaria.
Ho appena attraversato le trincee di Abybakar Shekauk, il capo dei Boko Haram. Sì, lo dicono morto o pentito le sue legioni di jihadisti nigeriani in barracano e turbante braccate e in fuga. In Nigeria quattro anni fa ho ascoltato le stesse sicurezze, nei mercati di Abujia tutti garantivano che questo forsennato professionista della resurrezione era stramorto e che al suo posto agiva un sosia, un capobanda che ne aveva preso il posto. Spesso sugli uomini e sulle vicende della jihad universale vogliamo credere al narcotico delle voci, delle verità che noi stessi inventiamo. Tranquillizza, aiuta a non agire. E invece... Sulle sponde del lago Ciad, sfinite dai fuggiaschi, ho sentito come un cupo rombo di tamburo il potere malefico dei Boko Haram, i talebani dell’Africa. Forte, sonoro, angosciante. Alcuni uomini incappucciati, con scombinate divise militari, in motocicletta, arrivano vicino a un villaggio o sbarcano dalle piroghe su un’isola del lago. «Ci sono i Boko Haram, sono qui…»: e tutti fuggono in preda al terrore, la terra si svuota. Una scena che in questi anni si è ripetuta centinaia di volte. Dai loro compagni di lotta di Siria e Iraq hanno copiato la capacità di diventare leggenda insanguinata: si aprono la strada con la paura prima ancora che con le armi, la gente sa che hanno il fuoco dentro, che non hanno paura di massacrare. Sanno che Shekauk, privo di carisma, che abbaia discorsi sconclusionati nei video diffusi dalla setta, è in grado di convincere bambine a rivestirsi di esplosivo e farsi uccidere in un mercato.
Hanno ragione le Nazioni Unite: i Boko Haram ora pensano in grande, come i loro massacri. Hanno compreso che la jihad ormai non è più una vicenda locale, c’è un rete mondiale più efficace che ai tempi di al Qaeda: perché ora esiste il Califfato. Fin dall’inizio hanno cercato alleati e finanziatori e li hanno trovati in aqmi, i legionari della guerra santa nel Sahara, e poi più lontano ancora, nello sfuggente e potente signore di Mossul. Già due anni fa il sequestratore delle studentesse di Chibok annunciò in un video di aver accettato l’autorità di Abu Bakr. «Noi siamo nel Califfato islamico. Non abbiamo nulla a che fare con la Nigeria». Sullo sfondo c’era la città di Gwoza che aveva appena conquistato e messo a sacco, mettendo in fuga l’imbambolato e corrottissimo esercito nigeriano, formato da uomini del Sud che non vogliono certo morire per terre a loro ostilissime, per di più abitate da selvatici maomettani.
La seconda mossa è stata quella di scavalcare i confini degli Stati del Nord del gigante petrolifero e malato: Camerun, Niger e Ciad. Non più guerriglia ma conquista territoriale dunque, e un altro simbolo storico, autoctono, da resuscitare: il Califfato di Sokoto, un’epopea ottocentesca che governò con sharia e pugno di ferro tutto il Nord della Nigeria: «Vogliamo restaurare la Nigeria di prima della colonizzazione…».
Internazionalizzare il conflitto, complicarlo, trascinandovi dentro sempre nuove vittime; un modo per trasformarsi, da un’insurrezione legata a problemi locali, in problema universale. Il Sahelistan è già una terra infettata dalla jihad, ora è la volta dell’Africa delle savane e dei grandi fiumi, delle città miserabili dove vivono milioni di senzatetto che attendono profeti furibondi e che sempre più spesso sono disposti a barattare il quieto islam africano con una fede senza pietà.
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