Riprendiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA di oggi, 06/05/2016, a pag. 98, con il titolo "Ricordare il Ghetto? Sì, parola di ebreo", l'intervista di Lara Crinò a Simon Schama.
Simon Schama
Oggi il Campo del Ghetto Nuovo è, all'apparenza, una delle tante piazze dal fascino quieto con le quali Venezia sa stupire, all'uscita di una calle o di un ponticello, il visitatore che abbandoni San Marco e Rialto. I bambini giocano a calcio contro un portone. I camerieri dei bar servono cappuccini e spritz ai tavoli all'aperto. Lungo il Rio della Misericordia passa una chiatta che trasporta frutta e verdura. Ma qui le case sono più alte che altrove, più spoglie, con i soffitti insolitamente bassi: dovettero ospitare genti diverse, arrivate in fretta, e furono sopraelevate ancora e ancora. I negozi di souvenir non vendono maschere ma candelabri e mezuzah in vetro di Murano. Sotto un portico, l'architrave marmoreo di un portone reca la scritta Banco Rosso. Fu qui, al centro di un'isola minuscola dove nel Medioevo sorgeva una fonderia, che la Serenissima decise nel 1516 di relegare l'Universitas Judaeorum, la comunità ebraica di Venezia, creando di fatto il primo ghetto d'Europa.
Il nome stesso non sarebbe altro che la storpiatura che gli ebrei d'origine tedesca, tra i primi a trasferirvisi, fecero del veneziano geto, ovvero fonderia. Per secoli, fino all'emancipazione napoleonica del 1797, quando le porte di legno che rinchiudevano i suoi abitanti «acciocché non vadino tutta la notte attorno» furono simbolicamente bruciate, il ghetto fu uno strano luogo: affollata prigione d'una minoranza vessata da tasse e limitazioni d'ogni tipo ma anche centro cosmopolita di commerci e cultura, straordinario melting pot di ebrei italiani, di askenaziti arrivati dal nord e dall'est Europa e sefarditi espulsi dalla cattolicissima Spagna, uniti dal credo nell'unico Dio ma diversi per abitudini, aspetto, lingue.
«Non si può parlare di una celebrazione: non si celebra ovviamente la creazione di un ghetto. Ma è giusto commemorare i cinquecento anni di questo evento, perché è più vicino a noi di quanto si creda. Per gli storici contemporanei, l'universo einsteniano di un tempo che si ripiega su se stesso è più plausibile d'una traiettoria irreversibile verso il progresso». Appoggiato al pozzo che si erge al centro della piazza, Simon Shama mette a fuoco così l'importanza di questo rettangolo di terra nella città di mare che fu per secoli centro nevralgico dell'Occidente, come una sorta di aleph borgesiano che illumina il presente con connessioni nascoste.È il suo mestiere, del resto, e sa farlo splendidamente. Laureato a Cambridge, professore ad Harvard prima e oggi alla Columbia University di New York, Shama è una sorta di superstar degli storici. Ha scritto libri di successo come Gli occhi di Rembrandt o Paesaggio e memoria, ma soprattutto ha portato la storia in tv: i suoi documentari per Bbc, Pbs, History Channel, che parlino della storia d'Inghiterra o della Rivoluzione americana, sono grandi successi di pubblico. E' di origini ebraiche, askenazite per parte di madre e sefardite per parte di padre. «I miei trisavoli venivano da Smirne, in Turchia. Attraversarono l'Europa passando per la Moldavia e la Romania, poi si fermarono a Londra all'inizio del Novecento, perché erano troppo pigri per salpare per New York», ha appena ricordato mentre, pressato tra i turisti, si godeva il sole di primavera in vaporetto.
Il Ghetto di Venezia
Quando siamo sbarcati e abbiamo attraversato il basso sotoportego che porta all'antico quartiere ebraico, il suo sguardo si è alzato verso gli alti caseggiati che sembrano ancora, dopo tanti secoli, andare in cerca di aria pulita e luce allungandosi verso il cielo. È già stato qui altre volte: Venezia è una tappa del documentario in cinque puntate che ha dedicato all'epopea più difficile e affascinante che gli sia toccato di raccontare, quella ebraica. Si intitola History of the Jews ed è già stato trasmesso in Inghilterra: del progetto fa parte anche una monumentale La storia degli ebrei in due volumi, del quale solo il primo, che si conclude con la cacciata degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo alla fine del XV secolo, è stato pubblicato (in Italia, come le altre sue opere, da Mondadori).
«Nonostante la storia ebraica sia un soggetto molto trattato, scarseggiano le opere che la abbraccino nel suo dispiegarsi dall'antichità ai giorni nostri. L'ultimo grande sforzo organico è stato quello di Cecil Roth negli anni 60. Tuttavia credo che non sia mai stato così necessario raccontarla. Primo, perché non esiste una storia degli ebrei disgiunta da quella delle nazioni in cui hanno vissuto. Poi, perché negli ultimi decenni l'archeologia e le fonti documentarie hanno aggiunto molto a ciò che sapevamo. E infine perché si rischia di appiattire una vicenda millenaria su due soli eventi: la Shoah e la nascita di Israele, con il conseguente conflitto arabo-israeliano».
Ma c'è molto di più da narrare, e i vicoli stretti del Ghetto lo testimoniano: «Gli ebrei vivevano confinati qui, è vero, ma la loro era una clausura estremamente porosa. Durante il giorno potevano uscire e al tempo stesso i cristiani entravano per fare affari, per ascoltare i sermoni dei rabbini, per assistere alle recite di Purim. È vero che la vita degli ebrei era piena di limitazioni, dalla rotella gialla da portare sugli abiti al divieto di pos sedere proprietà. Ma c'erano medici ebrei stimati in tutta la città, maestri di danza e coreografia, rabbini che intrattenevano rapporti con studiosi cristiani, non solo banchi di prestito o strazzeria».
La storia del Ghetto è peraltro costellata di personaggi singolari, dalla poetessa seicentesca Sara Copio Sullam, che ospitò un reputato salotto di letterati, intrattenne un epistolario con un nobile genovese e addirittura pubblicò un Manifesto sull'immortalità dell'anima, al celebre rabbino Leon Modena, colpito duramente dalla morte di un figlio ucciso da giovinastri veneziani, creatore di un'accademia musicale, giocatore d'azzardo e autore di un De ritii ebraici scritto, sfidando l'Inquisizione, per dissipare i pregiudizi cristiani. Per Leone, per la sua esperienza di vita così contraddittoria, Shama ha una predilezione particolare. Rappresenta la cifra con cui leggere questo pezzo di Storia, riportandola al presente: «Il Ghetto appartiene a noi oggi così come ci apparteneva cinquecento anni fa. Perché che cosa rappresenta, se non la possibilità o impossibilità per comunità diverse di coabitare, dividere uno spazio urbano senza paranoie, senza la necessità di far suonare una campana o chiudere i cancelli al tramonto?».
In tempi di terrorismo, nuovi muri e frontiere siamo solo illusoriamente preparati alla complessità. «Internet ci dà l'illusione di avere a disposizione ciò che ci serve per conoscere il mondo. Ma è uno spazio che nutre comunità di credenze più che comunità di sapere. Per questo lo storico deve far conoscere il passato e non solo scrivendo libri ma con le conferenze, con i documentari, con tutto ciò che può servire a raggiungere le persone». Anche quando può essere complicato: il secondo volume della sua Storia degli ebrei doveva essere già pronto, ma Shama ci sta ancora lavorando. «L'ostacolo maggiore non è raccontare Venezia o gli ebrei di Amsterdam nel secolo d'oro, ma affrontare il Novecento. Non devo ripercorrere tutto l'Olocausto, esiste un'enorme letteratura su questo. Voglio piuttosto fissare dei punti, delle connessioni. Tra i pogrom in Europa orientale alla fine della prima guerra mondiale, ad esempio, e la dichiarazione Balfour sulla Palestina dello stesso periodo».
Combattere i preconcetti, i sentito dire che passando un tempo di bocca in bocca e ora diffondendosi sui social network si tramutano in realtà, è uno degli obiettivi di Shama. Lo fa con l'affabulazione del letterato e il rigore dello studioso. Nelle immagini girate a Venezia per il suo History of the Jews lo si vede entrare nella Sinagoga Spagnola. Ha in testa una kippà di raso bianco e l'aria quasi commossa di chi osserva qualcosa di artisticamente notevole e insieme familiare. «Questo luogo riconcilia l'idea di rifugio e l'idea di bellezza. Se qualcuno ha dei cliché su cosa è stato il ghetto, basta portarlo qui. A vedere come anche la bellezza può essere una mitzvà, una buona azione».
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