La responsabilità della memoria e del pensiero del presente
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
questa sera al tramonto, in Israele e nelle comunità ebraiche sparse per il mondo, si ricorderà Yom Hashoah, la giornata della memoria del genocidio decisa dalla Knesset, il parlamento di Israele, nel 1951, su proposta di David Ben Gurion. Questa, e non il 27 gennaio in uso in Europa, è la giusta data in cui ripensare i crimini del nazismo e le loro conseguenze attuali. Non solo perché stabilire le modalità del ricordo spetta alle vittime e non agli eredi dei carnefici (come sono più o meno tutti gli stati europei, compresi quelli che combatterono contro la Germania ma non fecero nulla o quasi per salvare le vittime delle persecuzioni come la Gran Bretagna e l’Urss). Ma anche perché i contenuti e le motivazioni delle due giornate sono assai diverse. Il 27 gennaio è semplicemente il ricordo dell’apertura dei cancelli di Auschwitz ad opera dell’Armata Rossa, un momento naturalmente importante e positivo, ma che non fu affatto la fine delle sofferenze per i deportati, come sa chi ha letto Primo Levi e non solo guardato il film di Benigni. Ma soprattutto esso fu un fatto realizzato dall’esterno della persecuzione, un evento bellico, rispetto a cui le vittime non poterono che essere passive. Che la liberazione sia stata fatta sostanzialmente dagli eserciti alleati è un fatto che spesso si tralascia nelle celebrazioni del 25 aprile e che non bisogna mai dimenticare. Ma non dice tutto.
La giornata di oggi, che ricorre sempre il 27 del mese di Nissan nel calendario ebraico e ha dunque date che nel calendario occidentale possono variare di qualche settimana, si chiama in ebraico “Yom HaZikaron laShoah ve-laGevurah”, cioè “giorno del ricordo della Shoà e dell’eroismo”. Questo eroismo (la traduzione è certamente imperfetta e un po’ retorica, il termine ha piuttosto una connotazione di forza fisica e morale) è quello di chi cercò di opporsi e di resistere in qualunque modo alla violenza nazista, ma in primo luogo delle rivolte dei ghetti. Il Ghetto di Varsavia si ribellò il 15 di Nissan (19 aprile) del 1943. Inizialmente in Israele si era pensato di fissare il giorno del ricordo in questa data, ma dal punto di vista ebraico essa è innanzitutto l’apertura della festa di Pesach, l’anniversario della liberazione dalla servitù in Egitto e in sostanza della fondazione del popolo ebraico. E’ una data festosa, anche se vi sono in essa le note tristi della schiavitù e del prezzo di sangue che segnò quella liberazione. Si ritenne dunque inopportuno sovrapporre a Pesach il ricordo della Shoah, anche se per il pensiero ebraico è abbastanza immediato l’accostamento fra il tentativo hitleriano di eliminare gli ebrei e l’azione del Faraone descritta nella Bibbia, la prima di questa tragica serie.
La deportazione dal Ghetto di Varsavia
Dunque si scelse di rinviare di qualche giorno e di costruire una serie di eventi distanti nella storia ma vicini nel senso: innanzitutto la celebrazione pasquale nella cui Haggadà (racconto rituale) si avverte con forza che il genocidio è un rischio che ogni generazione corre e si propone un modello di “uscita dall’Egitto” che, dice ancora la tradizione, riguarda tutti gli ebrei, non solo quelli di tremilacinquecento anni fa. Di seguito viene il ricordo della Shoah, crimine del nostro tempo e della resistenza a esso. Dopo una settimana Yom HaZicharon, un altro ricordo luttuoso, quello dei molti che sono stati uccisi dai terroristi e sono caduti in difesa dello stato di Israele nei sessantotto anni della sua storia. E infine, immediatamente dopo la celebrazione dei caduti, Yom Haatzmaut, il giorno dell’indipendenza, che cade il 5 del mese di Yiar e quest’anno nel calendario civile il 12/13 di maggio. L’affermazione storica e politica di questa serie è che come la schiavitù dell’Egitto si concluse veramente solo con la presa di possesso della terra di Israele, così l’uscita da Auschwitz si realizza davvero con la costruzione dello stato ebraico. Non che questo sia stato concesso da qualche stato o coalizione come compensazione per il genocidio, come gli antisemiti usano dire – basta un po’ di storia per sapere che non è andata così, che la Gran Bretagna combatté militarmente Israele prima e dopo la costituzione dello stato, che gli Stati Uniti furono incerti fino all’ultimo e a Stalin non poteva importare di meno della sorte degli ebrei, ma cercò solo di sfruttare un motivo di imbarazzo per gli avversari capitalisti. Fu invece la resistenza, la determinazione, la forza o l’eroismo degli ebrei che permise loro di riconquistare la terra da tanto tempo perduta e di sconfiggere così davvero il nazismo.
Ma il ciclo genocida non si ferma, come ammonisce l’esperienza di Pesach. L’insediamento ebraico nella Terra Promessa dopo l’Esodo fu difficile e fortemente contrastato; così lo fu anche l’arrivo dei deportati settant’anni fa: contrastato dagli arabi ma anche dagli inglesi e dai loro alleati. Israele dovette affrontare e vincere continuamente guerre, terrorismi, isolamenti, delegittimazioni l’odio organizzato di grandi masse, il boicottaggio economico e politico per avere il privilegio che quasi ogni stato gode tranquillamente incontrastato, quello di organizzare pacificamente la propria esistenza, di permettere ai suoi cittadini di vivere, produrre ed essere se stessi in sicurezza.
Non è finita, non è affatto finita. Per questo è importante ricordare e pensare. La ripetizione naturalmente non è meccanica. Se ottant’anni fa il pericolo veniva dall’estrema destra, con tutte le varianti del fascismo (ma solo per il momento della guerra mondiale non venne anche dall’estrema sinistra, dalle varianti del comunismo, che hanno fatto altrettanto male del nazismo agli ebrei e in genere all’umanità), oggi l’allarme nasce dall’islamismo e da chi lo corteggia, cioè in sostanza la sinistra, inclusa buona parte di quella “democratica”. Non bisogna sclerotizzarsi a pensare che i vecchi nemici siano i soli e gli eterni pericoli. Naturalmente il neonazismo continua a essere antisemita e pericoloso; ma raramente oggi emerge come tale. Anche quando è alimentato dalla follia dei progressisti che cercano di cancellare le radici delle nazioni e di accogliere con finanziamenti e feste gli invasori. Più volte è accaduto che vecchi nemici siano scomparsi o siano cambiati. Non sono solo i romani e i babilonesi, gli egizi e gli assiri che non ci minacciano più. Bisogna guardare la realtà: per secoli in Europa era la Chiesa (o almeno una sua parte consistente) che opprimeva e umiliava gli ebrei; ora questo non è più il problema principale (anche se l’atteggiamento del Vaticano e della maggior parte dei prelati su Israele è inaccettabile). Non dobbiamo più aver paura del cristianesimo, possiamo vivere serenamente la nostra differenza. In certi momenti del passato alcuni territori islamici invece servirono da rifugio, per esempio l’impero ottomano dopo la tremenda violentissima mortale espulsione dalla Spagna; la mezzaluna allora poteva significare la salvezza. Oggi è il pericolo.
Il Monumento agli eroi del Ghetto di Varsavia a Yad Vashem
Non bisogna dimenticare il passato. Noi ricordiamo il Faraone e il primo ministro persiano genocida Haman, il suo avo Amalek e Tito e Adriano e Torquemada e Hitler e Stalin e tutti gli altri. Oggi ricordiamo i nazisti, ma sappiamo che il pericolo imminente non sono loro, finiti nella pattumiera della storia. Bisogna capire chi è il pericolo attuale e non aver paura di cambiare alleanze, se i nostri vecchi amici (per esempio la sinistra europea) oggi vuole distruggerci. Bisogna avere la forza di sapere da chi difendersi e non avere paura a farlo. Questo è il messaggio da leggere non solo in questo Yom HaShoaah ve haGevurah, ma nella serie delle ricorrenze che nella stagione attuale ci mettono di fronte alla responsabilità della memoria e del pensiero del presente.
Ugo Volli