Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/04/2016, a pag. 2, con il titolo "Un quid ebraico fece la differenza nello sviluppo dell'Europa preindustriale", l'analisi di Marco Valerio Lo Prete.
Marco Valerio Lo Prete
Karl Popper
Roma. Sostenne il filosofo Karl Popper, nel suo libro “La società aperta e i suoi nemici” del 1945, che “forse la causa più potente di dissoluzione della società chiusa fu lo sviluppo delle comunicazioni marittime e del commercio. L’intimo contatto con altre tribù è destinato a minare il senso di necessità col quale vengono considerate le istituzioni tribali; e il commercio, l’iniziativa commerciale, risulta essere una delle poche forme in cui può affermarsi l’iniziativa e l’indipendenza individuale, anche in una società nella quale prevale il tribalismo”. Questo dunque a proposito del passaggio da una “società chiusa” a una “aperta”. Dopodiché, prendendo in considerazione le sole società aperte europee, il loro grado di apertura nel corso della storia è aumentato più rapidamente proprio lì dove c’è stato maggiore sviluppo “delle comunicazioni marittime e del commercio”, associato spesso con una maggiore presenza di cittadini di fede ebraica.
E’ una delle principali conclusioni di uno studio appena pubblicato da due economisti della George Mason University, Noel D. Johnson e Mark Koyama, intitolato “Jewish Communities and City Growth in Preindustrial Europe”. I due accademici dell’ateneo della Virginia – in cui insegnò a lungo James Buchanan e che ha appena dedicato la propria facoltà di Giurisprudenza al giurista conservatore Antonin Scalia – hanno attinto alla Encyclopedia Judaica e agli studi di Paul Bairoch per costruire “un database delle città europee con abitanti di fede ebraica, e del loro tasso di crescita economica, nel periodo che va dal 1100 al 1850”.
Prima conclusione: “La presenza di una comunità ebraica in una città dell’Europa pre Rivoluzione industriale è associata a una crescita più rapida del 5-10 per cento rispetto a una città simile ma priva di comunità ebraiche”. Inoltre Johnson e Koyama, attingendo a studi variegati come quelli di Max Weber, Werner Sombart e altri, esaminano tre ipotesi per spiegare l’effetto positivo delle comunità ebraiche sulla crescita. La prima ipotesi è quella del “meccanismo del capitale umano”, con la sua enfasi sull’alto tasso di alfabetizzazione connaturato al giudaismo rabbinico.
Una seconda ipotesi esplicativa è quella del “meccanismo della trasmissione culturale”, secondo cui la fede ebraica sarebbe in qualche modo consona con l’ethos commerciale. Tuttavia l’ipotesi che gli economisti della George Mason University reputano più congeniale ai dati raccolti e alla fase storica della cosiddetta “economia smithiana” – antecedente all’“economia schumpeteriana” delle macchine e degli imprenditori – è quella del “meccanismo di integrazione del mercato”. Si legge nello studio: “Le comunità ebraiche in Europa costituivano solo una piccola percentuale della popolazione del continente, ma erano coinvolte in maniera sproporzionatamente maggiore delle altre comunità nel commercio e negli scambi; ciò era dovuto, in gran parte, ai propri legami culturali, linguistici e religiosi che attraversavano il continente. (…) Perciò ci sono robuste ragioni per ipotizzare che un canale attraverso cui la presenza degli ebrei ha recato beneficio economico alle città sia stato quello che passava per i network commerciali”.
Il quartiere ebraico di Amsterdam
Ad Amsterdam la comunità ebraica oscillò tra il 2,5 per cento della popolazione nel 1674 e il 10 per cento (22.000 persone) nel 1795, divenendo protagonista – in virtù di origini e legami transnazionali – del commercio atlantico di zucchero, tabacco, diamanti e non solo. Celebri a questo proposito gli studi di Francesca Trivellato, storica italiana oggi all’Università di Yale, che qualche anno fa esaminò le circa 14.000 lettere spedite e ricevute da due soli commercianti ebrei sefarditi di Livorno, con destinatari sparsi tra Amsterdam, Londra, Aleppo, Marsiglia, Lisbona, Venezia, Genova e Firenze. L’effetto propulsivo delle comunità ebraiche sulla crescita delle città – concludono Johnson e Koyama – è statisticamente osservabile solo a partire dal 1600, cioè da quando la repressione politico-religiosa verso le minoranze iniziò a scemare. Sembra un monito per l’Europa di oggi, nella quale torna a rafforzarsi l’antisemitismo e dalla quale fuggono cittadini di fede ebraica.
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